16 marzo 1978, via Fani: 40 anni dopo

Via Fani, 16 marzo 1978: un luogo e una data che resteranno per sempre impressi nella nostra memoria. Può dirsi che tutti coloro che all’epoca avevano almeno 15 anni, ricordino più o meno cosa stavano facendo quel giorno, quando risuonò la notizia, sulle prime inverosimile, del rapimento di Aldo Moro e dell’assassinio dei cinque uomini della sua scorta.

In effetti, era accaduto l’impensabile. Un commando delle Brigate rosse aveva dato l’assalto alla vettura di Moro, sequestrando lo statista democristiano e lasciando sull’asfalto cinque morti: il maresciallo Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci e gli agenti Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Un massacro perpetrato al quartiere Trionfale, all’angolo tra via Stresa e via Mario Fani, con un’azione di stampo militare. Inizialmente ci si chiese se Moro fosse rimasto ferito o addirittura ucciso nello scontro a fuoco. Poi la verità apparve nei suoi inquietanti contorni: il più importante uomo politico italiano dai tempi di De Gasperi, più volte presidente del Consiglio e ardito tessitore delle principali strategie politiche dell’ultimo ventennio era tenuto prigioniero dalle Brigate rosse per esser sottoposto a un processo.

Fu l’inizio di 55 drammatici giorni fino all’assassinio dello statista il 9 maggio. Due mesi contrassegnati da molteplici comunicati dei brigatisti e da una serie di lettere che Moro scrisse alla famiglia e alla nomenklatura del suo partito. Presto si impose, sostenuta dalla Dc, dal Pci e dal Pri, la cosiddetta linea della fermezza che escludeva qualsiasi trattativa con le Br, mentre da parte del Psi si tentò qualche apertura per salvare la vita dell’ostaggio. Il fatto – come spiegò anni dopo Giulio Andreotti, all’epoca presidente del Consiglio – è che lo Stato non poteva cedere al ricatto terrorista.

In realtà, quello che colpisce in tutta la vicenda è che le indagini non approdarono a nulla. Non si riuscì a liberare Moro, tra debolezze operative e il forte sospetto di veri e propri depistaggi. Basti pensare alla ricerca del corpo del leader Dc nel lago della Duchessa, tra i monti laziali, specchio d’acqua in quella stagione ancora ghiacciato e dunque impraticabile. O al pazzesco equivoco tra Gradoli, località vicino al lago di Bolsena, dove confluirono le forze dell’ordine, e Gradoli, via di Roma, dove, a cose fatte, si scoprì l’esistenza del covo in cui era stato tenuto il prigioniero.

In definitiva, permangono tanti misteri che i diversi processi non sono mai riusciti a chiarire. Di certo sappiamo che in molti apparati, più o meno prossimi alle attività investigative, si erano infiltrati membri della loggia massonica deviata P2, che voleva rovesciare le istituzioni democratiche e instaurare un regime autoritario. Continua poi a sembrare impossibile che le Br abbiano agito da sole, si avanza la tesi di una complicità di pezzi dei servizi segreti ma, a tutt’oggi, non vi sono le prove che confermino in maniera irrefutabile questo sospetto. Certamente Moro aveva molti nemici: gli erano avverse sia l’estrema destra che l’estrema sinistra ed era visto con ostilità dai sovietici e mal sopportato dagli americani.

Questo è quanto sappiamo, a 40 anni di distanza, e non è molto. La fine di Moro continua ad essere il mistero italiano per eccellenza. Così come continuano a rimanere preziose le riflessioni che lo statista democristiano faceva sui limiti e i problemi della democrazia italiana e che lo avevano condotto ad immaginare un progressivo coinvolgimento del Partito comunista nel governo. Una strategia di ampio respiro per allargare le basi democratiche del Paese e migliorarne la convivenza civile. Un progetto che, in quegli anni, urtava contro gli implacabili vincoli della Guerra fredda.

Moro voleva invece cambiare le cose, trovando nuovi equilibri politici, smussando le contrapposizioni, aprendo nuove prospettive. Era un cattolico riformista capace di elaborare grandi visioni, ma anche di muoversi con impareggiabile accortezza per realizzarle. Per questo venne fermato. Così come accadde ad altri grandi leader come John F. Kennedy o Yitzhak Rabin.

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