Elezioni 2018: l’Italia al voto

La campagna elettorale è finita: domani si vota. Nell’ultimo mese, anziché ad un serrato e proficuo confronto tra i diversi programmi, si è assistito ad una corsa demagogica a chi prometteva di più. Mirabolanti davvero le cose gettate sul tappeto: dall’abolizione della riforma Fornero sulle pensioni (costo circa 100 miliardi nei prossimi cinque anni), all’istituzione del reddito di cittadinanza esteso a tutti, alla creazione di una tassa piatta (al 15 per cento in una versione, al 23 in un’altra) che smonterebbe alla radice la progressività del nostro sistema fiscale. E il bello (si fa per dire) è che tutte queste proposte sono state lanciate senza neanche spiegare come saranno finanziate.

Perché – inutile far finta di niente – abbiamo un colossale debito pubblico sul groppone che vale il 133 per cento del Pil (2,300 miliardi contro 1.700); un peso che impedisce qualsiasi volo pindarico che non sia la strada di un serio risanamento, da condurre ovviamente nel modo più equo possibile, facendo fare più sacrifici ha chi di più, in vista di una ripresa economica che speriamo possa ulteriormente irrobustirsi. Invece, nulla di tutto ciò ma solo roboanti proclami da rinnegare il giorno successivo all’eventuale vittoria elettorale. I conti pubblici infatti sono questi e chiunque sarà chiamato a governare dovrà tenerne conto.

Abbiamo detto chiunque sarà chiamato a governare perché, per la prima volta nella vita repubblicana, siamo di fronte ad un’elezione con prevalente metodo proporzionale nella quale davvero tutti possono vincere e trovarsi alla guida del Paese, da soli o, più probabilmente, in coalizione con altre formazioni politiche. All’epoca del proporzionale della Prima repubblica, si sapeva in partenza come sarebbe andata: la Dc e i suoi alleati al governo, il Pci e il Msi relegati all’opposizione. I comunisti a causa dei problemi connessi alla Guerra fredda e i missini per i loro trascorsi nostalgici. Oggi invece – ed è un bene che sia così – tutti sono legittimati a governare e saranno i cittadini a decidere, senza alcun condizionamento esterno.

Impossibile dunque fare previsioni: l’incertezza regna sovrana. A dar retta ai sondaggi, da prendere sempre con le molle, si sa che soltanto il centro-destra potrebbe essere in grado di ottenere in solitario la maggioranza assoluta nei due rami del Parlamento. Qualora nessuno superasse questa soglia, e si dovesse allestire un governo di coalizione, almeno tre sono le combinazioni possibili: la prima è quella di sinistra che potrebbe materializzarsi se il M5S dovesse essere il primo partito, trovando poi come alleati Liberi e Uguali e un Pd, magari meno egemonizzato da Matteo Renzi. La seconda è quella euroscettica tra i pentastellati e la Lega, che in quel caso romperebbe l’intesa elettorale con Forza Italia. La terza è la classica Grande coalizione tra Pd, Forza Italia e le formazioni centriste, con il taglio delle estreme. Una soluzione, questa, che tranquillizza i mercati finanziari ma, soprattutto, piace all’Unione europea perché proseguirebbe, senza troppi scossoni, la linea seguita dal centro-sinistra che ha governato negli ultimi cinque anni.

Resta infine il rammarico che le forze riformiste ed europeiste si presentino divise all’appuntamento elettorale, perdendo la grande occasione di far tornare al governo un centro-sinistra unito. Una mancanza di prospettiva politica che solo personalità come Romano Prodi o Enrico Letta hanno colto fino in fondo, mentre altri invece hanno preferito perdersi nel limbo di mille beghe e recriminazioni.

In ogni modo, tutto questo appartiene ormai al passato: adesso la palla passa ai cittadini, sperando vi sia una grande partecipazione al voto. Da lunedì, ad urne chiuse, si comincerà poi a ragionare sulla prossima legislatura.

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