“Orphée et Eurydice” di Gluck per la prima volta al Teatro alla Scala nella versione francese

Si conferma la classe del grande tenore Juan Diego Flórez.

Diversi motivi hanno reso importante e significativa la proposta di Orphée et Eurydice di Gluck al Teatro alla Scala. Innanzitutto perché per la prima volta la versione in lingua francese del 1774 viene eseguita nel teatro milanese, essendo certo più nota quella, in italiano, che il compositore mise in scena a Vienna nel 1762, con il castrato Gaetano Guadagni nei panni del protagonista. A Parigi, invece, vennero attuati trasporti di registro e diverse modifiche alla linea vocale di Orphée per adattarla alla vocalità tenorile di Joseph Legros, che in quegli anni era fra i più noti esponenti di quella mitica cerchia di haute-contre francesi impegnati in Lully e Rameau e che Gluck utilizzò in diverse sue opere. Sappiamo che il rapporto fra Legros e Gluck non fu inizialmente idilliaco, e che lo scontro e le diversità di vedute li misero talvolta in contrasto.

Eppure Legros finì per divenire fra i tenori più apprezzati dal compositore della riforma del melodramma, tanto da essere il primo interprete di Achille in Iphigénie en Aulide (ruolo assai impervio), poi Admète nella versione francese di Alceste, Renaud in Armide, Pylade in Iphigénie en Tauride e, ovviamente, il primo Orphée della versione parigina in questione. Alla Scala la parte è stata oggi affidata ad uno dei tenori più in vista dell’odierno panorama internazionale, il peruviano Juan Diego Flórez, che da affermato tenore rossiniano sta via via allargando il proprio repertorio, avvicinando diverse parti dell’opera francese. Lo fa a ragion veduta, da fuoriclasse quale è, con innegabile padronanza della pronuncia francese e sicurezza vocale alla quale si è aggiunta una più sentita consapevolezza espressiva, che l’ha portato, in questa come in altre occasioni, a curare la mezza voce oltre che la lucentezza degli acuti e la ben nota perizia in quel canto di agilità che, nello specifico del ruolo di Orphée, ha modo di essere evidenziata in “L’espoir renaît dans mon âme”, aria “di bravura” che Gluck aggiunse alla versione francese per mettere in luce le qualità virtuosistiche di Legros, oltre che riflesso del coraggio del protagonista, pronto a partire per l’aldilà e determinato a riportare in vita la sua amata Euridice.

Ebbene Flórez, che già aveva ottenuto grandi consensi al Covent Garden di Londra in questa stessa parte e nel medesimo allestimento, la ripete alla Scala con un successo che diviene ora vera consacrazione. Meritata se si pensa che l’eleganza e l’affettuosità espressiva con le quali la avvicina lo portano sempre a primeggiare vocalmente e a regalare un canto intimamente delicato ed emozionalmente sincero in diversi momenti dell’opera, compreso ovviamente il celebre “J’ai perdu mon Euridice”, intonato con toccanti sfumature. C’è solo una perplessità, che non vorremmo risultasse come una riserva, bensì solo una riflessione per meglio meditare sulla vocalità consona ad Orphée. Flórez è un tenore contraltino acuto, forse non un autentico haute-contre della tradizione francese che utilizza la parola come strumento di declamazione e che nelle sfere acute dovrebbe far ricorso a suoni misti di levigata stilizzazione, utili a rendere, con vigorosa scolpitezza di accento e aulica superiorità morale, l’allure del cantore semidio. Flórez risolve la parte senza nessuna esitazione, assecondando la sua natura vocale, anzi ha il coraggio di affrontarla, in maniera sempre vincente, con registro di petto plasmato su un canto sfumato che sappiamo essere elegante, oltre che incredibilmente naturale all’ascolto, senza affanni di sorta.

Ma il coraggio e il dolore del personaggio dovrebbero avere quella consapevolezza carica di tragicità regolata dal rigore di una forma e di uno stile di canto autenticamente francesi che Flórez sembra aver studiato ed approfondito, non appreso nell’intimo delle sue ragioni. Ecco perché il suo Orphée ci appare splendidamente cantato e risolto in tutte le molteplici difficoltà vocali di tessitura, ma forse non del tutto consapevole del pathos richiesto per esprimere un dolore più morale che emotivo, facendo appunto ricorso a quei suoni misti chiari ma intensi, tipici degli haute-contre francesi, che Flórez sembra non possedere. Gli stanno a fianco la brava Christiane Karg, Eurydice, e soprattutto Fatma Said, che nei panni de L’Amour si segnala come voce da seguire con particolare interesse.

Inoltre, si deve alla direzione di Michele Mariotti se i meriti musicali complessivi di questo Orphée et Eurydice toccano livelli di assoluta eccellenza. La sua bacchetta dona alla partitura pulizia di suono delicata e trasparente, consapevole di quanto orchestra e canto debbano essere un tutt’uno di eleganza e plastica scorrevolezza, all’insegna di una finezza che mai cede alla tentazione di accademismi o di forzati intenti filologici, puntando all’equilibrio perfetto col palcoscenico. Ne deriva una lettura di rara bellezza nel rilievo poetico donato agli assoli strumentali, apollinea nell’eleganza delle forme ma teatrale nel respiro narrativo. Anche il magnifico Coro scaligero, istruito da Bruno Casoni, contribuisce all’alto livello della esecuzione. Dello spettacolo, che proviene come detto dal Covent Garden di Londra ed è firmato dalla regia di Hofesh Shechter e John Fulljames, si apprezza l’essenzialità e la scelta di posizionare l’orchestra su un ponte mobile dietro il proscenio, così da essere sollevata o da sprofondare sotto il piano scenico a seconda dei momenti dell’opera.

Sul piano visivo le scene e i costumi di Conor Murphy e le luci di Lee Curran, riprese da Andrea Giretti, donano l’immagine stilizzata e senza tempo di un impianto scenico anticlassicheggiante, sfrondato da ogni riferimento alla natura, formato da soffitti di rame forati dai quali partono coni di luce che delimitano lo spazio e lo avvolgono in una penombra misteriosa e nebulosa, quasi metafisica, all’interno della quale le coreografie di Hofesh Shechter, di impronta contemporanea e talvolta di nervoso taglio vagamente tribale, vedono la presenza costante sulla scena di danzatori che partecipano ai sentimenti di gioia e dolore rispettando la statica dell’opera. Lo spettacolo non cerca inopportuni parallelismi o riformulazioni drammaturgiche, come spesso è in uso fare oggi, ma asseconda il rituale collettivo statico voluto dal compositore e lo reinterpreta in chiave moderna. Grande successo per tutti.

Credit photo: Brescia & Amisano – Teatro alla Scala.

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