Tregua olimpica

 

In epoca arcaica, le pòleis, le città-stato dell’antica Grecia, erano costantemente in lotta fra loro per conquistare la supremazia politica e territoriale. Con un’importante eccezione, la “tregua olimpica”, che aveva lo scopo di consentire il regolare svolgimento dei giochi omonimi, dove la bellicosità latente veniva sublimata nella competizione sportiva, lasciando temporaneamente da parte le situazioni di conflitto che serpeggiavano in territorio ellenico.

Nella realtà storica, non sempre la tregua funzionava, ma nell’immaginario collettivo ancora oggi vediamo quel periodo circoscritto come un lasso di tempo magicamente avulso da un contesto di guerre e tensioni, dove la Pace, almeno per qualche giorno, regnava sovrana. Una visione forse un po’ mitizzata, ma meritevole di essere sostenuta, tanto che anche in epoca moderna il Comitato Olimpico Internazionale, a partire dal 1992, chiede ufficialmente alla comunità internazionale di sospendere ogni conflitto in occasione dello svolgimento delle Olimpiadi. Le quali diventano dunque occasione per ripensare i rapporti internazionali.

È esattamente ciò che è avvenuto ai Giochi Olimpici Invernali di PyeongChang, appena conclusi, con il tanto auspicato riavvicinamento delle due Coree, del Sud e del Nord, politicamente separate e tecnicamente in guerra fra loro. Le due nazioni hanno presentato, per la prima volta alle Olimpiadi, una squadra unificata, con gli atleti che sfilavano insieme sotto una bandiera creata per l’occasione. Contemporaneamente, a partire proprio dalla cerimonia di apertura, anche le rispettive delegazioni politiche hanno colto l’occasione per degli incontri informali, preludio di possibili future trattative di pace. La stretta di mano tra il presidente sudcoreano Moon Jae-in e Kim-Jo Yong, sorella del dittatore nordcoreano Kim Yong Un, è sicuramente un fatto di portata storica. Peccato che Mike Pence, vicepresidente degli Stati Uniti a capo della delegazione americana, non abbia a sua volta contribuito al clima di distensione, evitando di incontrare la delegazione nordcoreana.

Nonostante ciò, la Corea del Nord si è detta disponibile a tenere colloqui con gli Stati Uniti, per bocca del generale Kim Yong-chol, a capo della delegazione nordcoreana in occasione della cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici Invernali. Certo, nessuno si illude che ora il percorso sia facile, ma è sicuramente un inizio, dopo tante dichiarazioni ed episodi bellicosi che avevano innalzato alle stelle la tensione fra il regime nordcoreano e il governo di Trump. Un fatto positivo che invita a non sottovalutare il potere dello sport di stemperare i conflitti, trasformandoli semmai in sana competizione e contribuendo all’avvicinamento fra uomini e nazioni nominalmente in conflitto.

I precedenti, in un senso e nell’altro, sono numerosi. Un incontro di calcio fra la nazionale statunitense e quella dell’Iran ai Mondiali di calcio di Francia ’98 contribuì anche allora ad abbassare la tensione fra le due nazioni storicamente in conflitto. Mentre furono senz’altro un errore il boicottaggio da parte degli Usa delle Olimpiadi di Mosca 1980 (a causa dell’invasione sovietica dell’Afghanistan) e la successiva, strumentale ripicca dell’Urss alle Olimpiadi di Los Angeles 1984.

Le Olimpiadi non si boicottano, semmai vanno sfruttate come occasione di diplomazia o per accendere i riflettori su determinati temi, come il rispetto dei diritti umani in occasione di Pechino 2008, per la verità con scarso successo, tanto che si dovrebbe riprovare con forza in occasione di Pechino 2022, prossima Olimpiade invernale.

Parimenti, dovrebbero valere altre due regole d’oro, non solo nello sport: gli inni nazionali non si fischiano e le bandiere non si bruciano. Perché un inno e una bandiera rappresentano un’intera nazione, a prescindere dai governi o dalle politiche presenti tempo per tempo. Nazioni un tempo nemiche possono ritrovarsi amiche o alleate, e la bandiera e l’inno sono sempre gli stessi. Non sono un simbolo politico, semmai identitario. Subissare un inno con i fischi o appiccare il fuoco a una bandiera è fare un torto a ogni singolo cittadino della nazione in oggetto, qualcosa di riprovevole a prescindere dal fatto che le “motivazioni” siano politiche o agonistiche. L’altra nazione e le singole persone che la compongono vanno sempre rispettate, esattamente come andrebbe sempre rispettata la “tregua olimpica”. Sembrano dettagli, ma non lo sono. Sono invece segnali fondamentali per stemperare rancori e tensioni, contribuendo a politiche e pratiche di distensione che vanno a vantaggio di tutti.

 

 

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