Meno inquinamento per tutti

Come ogni inverno, il cielo sopra il Nord Italia si riempie di micro polveri e sostanze nocive, che inevitabilmente respiriamo. È un problema di area vasta, che non riguarda solo le zone metropolitane, ma in generale tutta la pianura padana, un catino racchiuso dalle montagne, densamente popolato, percorso da un intenso traffico veicolare e con alte concentrazioni di attività produttive. Non si tratta di una questione circoscritta al periodo invernale: l’inquinamento è costantemente presente, ma nei mesi freddi si aggiunge anche il contributo degli impianti di riscaldamento (compresi quelli a legna e pellet, grandi produttori di particolato) e le particolari condizioni microclimatiche, che in alcune zone producono una cappa che imprigiona l’aria, impedendo il ricambio.

La situazione è ampiamente nota, quindi non dovrebbero sorprendere i picchi stagionali o in particolari giornate, in assenza di precipitazioni o correnti d’aria in grado di disperdere le sostanze nocive. Si tratta di un problema persistente, che dovrebbe essere affrontato in maniera strutturale, anziché limitarsi a soluzioni-tampone messe in atto per dare l’impressione che si stia facendo qualcosa, ma di fatto inutili o peggio controproducenti. Esempio di questa tattica di corto respiro sono i blocchi del traffico, unico provvedimento partorito da un organismo incaricato di proporre rimedi, composto dai rappresentanti delle Regioni interessate. Una soluzione inefficace, specialmente se attuata senza coordinamento tra i territori, in maniera confusa e contraddittoria, senza un’informativa chiara ai cittadini, che non di rado si sono ritrovati dalla sera alla mattina, letteralmente, a non sapere se avevano la possibilità di circolare o no. L’ovvia conseguenza è stata la generalizzata violazione dei divieti di circolazione, complice la quasi totale mancanza di controlli e la diffusa contrarietà a una norma percepita come vessatoria, piuttosto che come un provvedimento volto a tutelare la salute.

Per fare chiarezza e ridurre le difficoltà logistiche create dai blocchi del traffico, sarebbe forse più utile, per le aree metropolitane, decidere giornate e orari fissi nei quali vietare la circolazione ai veicoli più inquinanti, provvedendo nel contempo a potenziare il trasporto pubblico e/o a ridurne le tariffe, prevedendo eventualmente anche la gratuità totale nelle giornate di stop alle auto o almeno nelle fasce orarie di punta. Un costo certamente non irrilevante per il trasporto pubblico, ma da inquadrare come un investimento sulla salubrità dell’aria, sulla salute dei cittadini e, soprattutto, verso un nuovo paradigma culturale. Perché il cambiamento più necessario, quello in grado di garantire i risultati migliori, è proprio quello culturale, destinato a incidere sugli stili di vita e sui modelli urbanistici e della mobilità. Sfortunatamente, si tratta di un percorso lungo, con tempi che si misurano in generazioni, ammesso che si proceda nel verso giusto, fattore al momento tutt’altro che scontato, visto che troppo spesso si nota una tendenza ad andare nella direzione sbagliata, come mostrano due esempi fra i molti possibili.

Primo fattore: la scelta di affrontare troppo spesso il problema dei rifiuti costruendo inceneritori, ovvero impianti che ogni 10 tonnellate di immondizia bruciata ne emettono 8 di anidride carbonica, gas fra i principali responsabili dell’effetto serra. Gli impianti di incenerimento fanno inoltre registrare il rapporto più svantaggioso fra elettricità prodotta e anidride carbonica emessa, 940 grammi per kW/h, contro i 500 del gas e gli 0 (zero!) di eolico e solare. Questo negli stessi anni in cui molte realtà iniziavano ad adottare la strategia “Rifiuti Zero”, non solo piccoli comuni, ma città come Edmonton, Canada (900.000 abitanti, più o meno gli stessi di Torino, che ha costruito uno degli inceneritori più grandi d’Italia) che in pochi anni ha ridotto del 70% la percentuale di rifiuti, e San Francisco, che prevede di azzerare i rifiuti nel 2020, grazie a un’industria del riciclo che garantisce nuova vita ai materiali, creando al contempo migliaia di posti di lavoro. Perché non bisogna dimenticare che il ciclo combinato di raccolta differenziata e riciclo dei rifiuti è in grado di creare posti di lavoro in misura quindici volte superiore al loro banale incenerimento.

Secondo fattore negativo: lo spopolamento, demografico e produttivo, degli ambiti urbani, con il trasferimento di abitanti e attività verso periferie e aree metropolitane. Un processo noto come “urbanizzazione diffusa”, ovvero un’espansione incontrollata delle aree edificate attuata senza direttive strategiche e piani regolatori preordinati, che ha divorato enormi quantità di prati e aree agricole, sostituite da cemento e asfalto. Uno “sviluppo” che provoca pesanti conseguenze ambientali: prima di tutto, l’impermeabilizzazione di decine di chilometri quadrati di terreno non è certo estranea alle numerose e devastanti ondate alluvionali che hanno colpito il territorio del Belpaese a più riprese. La maggiore incidenza di fenomeni estremi dovuta al surriscaldamento globale si combina in modo micidiale alla gestione irresponsabile del territorio, moltiplicando il numero delle catastrofi: le stesse piogge che un tempo si sarebbero limitate a ridurre un prato in fanghiglia, oggi rimbalzano sui tetti e sui parcheggi dei centri commerciali, si incanalano su tangenziali e rotonde e invadono villette a schiera e condomini costruiti ovunque, seguendo ottiche puramente speculative.

Ma anche in circostanze normali, non mancano complicazioni per mobilità e traffico, dal momento che le esigenze di spostamento si moltiplicano e non possono essere soddisfatte da un sistema di trasporto pubblico che dovrebbe estendersi e ramificarsi a tal punto da diventare antieconomico. Dovrebbe essere intuitivo che una città compatta, con distanze brevi e trasporto pubblico efficiente, produce assai meno inquinamento veicolare di un’area metropolitana diffusa, caotica e che costringe i residenti a lunghi spostamenti con autovettura privata, perennemente bloccati nel traffico a sgasare. Eppure, questa tendenza al consumo diffuso di suolo non rallenta, e chi si oppone all’edificazione dell’ennesimo centro commerciale viene in genere accusato di voler ostacolare lo “sviluppo”, termine che ormai pare diventato sinonimo di “Cemento & Asfalto”.

Eppure molto si potrebbe e dovrebbe fare. A cominciare dal trasporto merci, che nella pianura padana viaggia su gomma per oltre l’80%. Prevedere di dirottare parte di questa massa su rotaia, caricando direttamente i TIR su convogli da “autostrada ferroviaria” non è fantascienza utopica, ma seria programmazione logistica. Fermare il consumo di territorio e l’urbanizzazione diffusa e caotica è un altro passo fondamentale per poter razionalizzare la mobilità metropolitana che, come dice la parola stessa, non può prescindere da un esteso e articolato sistema di trasporti sotterraneo, certamente il più oneroso da realizzare, ma l’unico in grado di garantire velocità ed efficienza irraggiungibili in superficie. Una volta canalizzati i grandi flussi sulle linee sotterranee e sul servizio ferroviario metropolitano, potenziato con la messa in opera di nuove stazioni, si potranno ridisegnare le linee di superficie e, grazie al diminuito flusso di auto, implementare piste ciclabili e posti per bici (anche al coperto) per favorire intermodalità e trasporto dolce. La logistica merci dovrà riconvertirsi sulla mobilità elettrica, come il traffico veicolare residuo, e il tutto andrà coordinato su un piano di area vasta, a livello interregionale.

Si può fare, si deve fare. Partendo subito, i tempi non sarebbero neppure così lunghi. E per favore, non ci si dica, come al solito, che mancano i fondi. Per costruire opere inutili come il TAV, la Pedemontana o il Mose, vengono tuttora stanziati miliardi di euro. Cerchiamo piuttosto di dirottarli su opere utili, che vadano nella direzione giusta, quella della salvaguardia della salute dei cittadini e della tutela ambientale.

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