Buon Natale

Parlando all’Angelus del 17 dicembre, papa Francesco ha lanciato questa esortazione: “Quando pregherete a casa, davanti al presepe con i vostri familiari, lasciatevi attirare dalla tenerezza di Gesù Bambino, nato povero e fragile in mezzo a noi, per darci il suo amore. Questo è il vero Natale. Se togliamo Gesù, che cosa rimane del Natale? Una festa vuota. Non togliere Gesù dal Natale! Gesù è il centro del Natale, Gesù è il vero Natale!” .

Ancora una volta, con parole semplici e immediate, tipiche del suo tono colloquiale, il Papa ha centrato il punto della questione, ovvero lo snaturamento del Natale che, come dice la parola stessa, dovrebbe essere la celebrazione di una nascita. Per i pagani, era la rinascita di un nuovo ciclo vitale, dopo i giorni corti e freddi del solstizio d’inverno; per i cristiani è “la” nascita per antonomasia, quella di Gesù, figlio di Dio, Salvatore dell’umanità. Ma l’appello di Francesco sottolinea come questo aspetto sia diventato sempre più marginale nella celebrazione contemporanea del 25 dicembre, e non solo perché sempre più spesso l’Albero di Natale sostituisce il presepio (come evidenzia per esempio la pretestuosa polemica sugli alberi natalizi allestiti a Roma e Milano…), ma per almeno un paio di motivi ben più seri.

Il primo è che il Natale si è ormai trasformato nella massima espressione del consumismo, con l’imperversante frenesia del regalo a tutti i costi, a volte anche per amici-parenti-conoscenti che non vengono considerati per tutto il resto dell’anno, a volte per sé stessi, in omaggio a quel crescente edonismo ed egocentrismo che è diventato uno dei motori dell’economia moderna, con l’individuo che cerca una gratificazione materiale per compensare l’assenza di soddisfazioni di altro tipo, familiari, affettive o lavorative che siano. È questo il motivo per il quale chi scrive (sarà concessa una parentesi personale, visto che a Natale siamo tutti più buoni, no?) da tempo non sopporta più il periodo pre-natalizio, trasformato nel festival del consumo, con centri commerciali aperti a oltranza, in spregio ai diritti dei loro dipendenti, con un inasprimento del traffico e relativo innalzamento dei livelli di inquinamento, nonché un aumento generalizzato dei livelli di stress. Una visione eccessivamente critica e pessimistica della “magia del Natale” connotata da esperienze personali negative? Forse, lasciamo il giudizio ai lettori.

Ma c’è un’altra questione che sta incrinando la natura di una festa che, tutto sommato, avrebbe una sua valenza positiva e una sua particolare magia, almeno per i più piccoli, ed è quella sorta di autocensura che sempre più spesso vediamo affacciarsi in vari contesti, in particolare quelli scolastici. Infatti sono ormai numerosi gli esempi in cui si rinuncia, ci si astiene dal celebrare pubblicamente la festa con presepi o canti natalizi, per non arrecare offesa a chi “la pensa diversamente”, in particolare riferendosi alla crescente comunità musulmana che vive nel nostro Paese.

È un grave errore, anche se spesso originato da buone intenzioni e dall’ossessione attuale per il “politically correct”. Rinunciare alle proprie tradizioni e quindi anche alle proprie radici in ossequio dell’altro è cosa assai diversa dall’accoglienza, dal dovere dell’ospitalità, dalla spinta all’integrazione. Si tratta di un discorso scivoloso, perché ci vuol poco a cadere nello sciovinismo intollerante del “padroni a casa nostra” e simili, ma per onestà intellettuale va fatto, anche a costo di suscitare pareri discordanti o critiche.

Perché se in una società globalizzata il multiculturalismo è da considerare senz’altro un valore, il relativismo culturale non sempre lo è. Nel senso che l’accettazione e la tolleranza verso culture, tradizioni e fedi diverse dalla nostra sono sinonimo di civiltà, ma la rinuncia a ciò che siamo lo è molto meno. Intanto perché il riconoscimento e il rispetto dovrebbero essere reciproci, la qual cosa non sempre è scontata. Poi perché tradizioni, usi e costumi di un Paese, al pari delle leggi, sono preesistenti rispetto all’arrivo di nuove culture, per cui la flessibilità e l’adattamento sono richiesti anche e soprattutto a chi arriva: è il principio alla base di ciò che chiamiamo “integrazione”, e che parte dall’apprendimento della lingua del Paese ospitante, destinato in prospettiva a diventare una nuova patria. A sua volta, chi arriva porterà proprie tradizioni che potrà conservare e condividere, mantenendo le proprie radici culturali e aggiungendole a quelle preesistenti.

Perché l’incontro di culture legato alle migrazioni -che sono e saranno sempre più un fenomeno inevitabile in un mondo globalizzato e con risorse fortemente sbilanciate fra aree geografiche- deve e dovrà essere connotato da una logica di sommatoria, non già di sottrazione. Accettare l’altro non implica rinnegare sé stessi, anzi la forte presenza di radici culturali è un’ottima base per un confronto aperto fra sensibilità diverse, logicamente in un’ottica di tolleranza e rispetto reciproci. È molto meglio, per scendere nel pratico, imparare cosa sono il ramadan o l’ashura, piuttosto che dimenticare cos’è il Natale. O anche, visto che con le feste non mancheranno pranzi e abbuffate, è molto meglio imparare ad apprezzare cous cous e falafel, piuttosto che rinunciare al panettone. E dopo questa subitanea slittata dal livello filosofico a quello gastronomico, è tempo di chiudere augurando un Buon Natale di serenità e di pace a tutti.

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