Attentato all’Islam

I terroristi che hanno compiuto l’attentato contro la moschea egiziana di Al Rawdah, nel nord del Sinai, hanno scelto di colpire di venerdì, il giorno sacro dell’islam, dedicato alla preghiera. È la dimostrazione più lampante, nel caso ce ne fosse ancora bisogno, che i terroristi non possono essere considerati musulmani, ma semplicemente fanatici e assassini. Se rispetti la tua religione, non colpisci nel giorno della preghiera. Se invece lo fai, sapendo di massimizzare l’effetto dell’attacco, provocando il maggior numero di vittime, è chiaro che sei un assassino al quale importa semplicemente di uccidere più persone possibile, e che l’alibi religioso è solo un paravento per un’indole fanatica, omicida e spietata.

Questa è la prima, doverosa riflessione riguardo all’attacco terroristico che ha colpito la comunità religiosa di una piccola città del Sinai settentrionale provocando, secondo i dati forniti dalla Procura generale egiziana, 305 morti, di cui 27 bambini, e 128 feriti.

La seconda riflessione, anch’essa evidente, ma in genere ignorata dall’opinione pubblica occidentale, è che l’islam non è monolitico come troppo spesso viene rappresentato. In esso sono presenti svariate confessioni, non di rado aspramente in conflitto fra loro. La divisione più netta e conosciuta è, naturalmente, quella fra l’ala ampiamente maggioritaria sunnita, alla quale appartiene circa il 90% dei musulmani, e la fazione sciita. Ma all’interno e all’esterno di queste due correnti principali vi sono altre derivazioni. Una di esse è il sufismo, corrente alla quale appartenevano i frequentatori della moschea oggetto dell’attacco. Seguaci di una tradizione musulmana di stampo mistico e intimista dall’indole tollerante, i sufi sono invisi ai musulmani più radicali, fra i quali ultimi si possono senz’altro annoverare i wahabiti,  che fanno capo all’Arabia Saudita e dalle cui fila è uscita la quasi totalità degli adepti della jihad, la “guerra santa” combattuta prima sotto le bandiere di al-Qaeda e ora dell’Isis.  I sufi, inoltre, venerano i maestri della propria tradizione contemplativa, per cui vengono considerati politeisti e dunque eretici dai cultori dell’islam più ortodosso. Per questo i terroristi li considerano un bersaglio, al pari degli yazidi (una setta monoteista curda preesistente all’islam), dei copti egiziani e dell’Occidente in generale.

La terza considerazione è di ordine geografico e strategico e riguarda il Sinai. La penisola desertica, politicamente appartenente all’Egitto dagli anni ’80 – dopo la cessazione dell’occupazione militare da parte di Israele in seguito agli accordi di pace fra i due Paesi – in realtà sfugge al controllo della capitale Il Cairo. Da quando le truppe del generale al-Sisi hanno rovesciato con la forza il governo del presidente eletto Morsi e posto fuorilegge la componente politico-religiosa a cui apparteneva, i Fratelli Musulmani, si è venuto a creare un movimento di opposizione al regime su base confessionale, che ha le sue principali roccaforti proprio nel Sinai. Qui i gruppi jihadisti hanno dichiarato la nascita dello “Stato del Sinai”, affiliandosi all’autoproclamato “califfato” dell’Isis, senza che il governo centrale fosse in grado di contrastare le milizie che di fatto controllano il territorio.

Un chiaro indice della forza solo apparente del regime di al-Sisi, che per restare al potere ha trasformato l’Egitto in un regime poliziesco, dove quotidianamente si esercita una feroce repressione nei confronti di chiunque sia sospettato di essere un oppositore o una spia: centinaia di cittadini egiziani sono stati arrestati e torturati, a volte sono scomparsi nel nulla. Sorte analoga a quella toccata al nostro Giulio Regeni, massacrato da torturatori esperti durante lunghi giorni di prigionia, circostanza che a molti ha fatto ipotizzare il coinvolgimento dei servizi segreti del regime, senza che tuttavia nulla sia stato provato finora con certezza in tal senso. Nonostante la brutalità del regime, però, un’ampia fetta del territorio egiziano, quale è appunto la penisola del Sinai, è in balia di milizie armate che, con l’alibi della religione, compiono attacchi efferati come quello alla moschea nel venerdì della preghiera, senza che le autorità riescano a proteggere la popolazione.

In questo senso, il tardivo e strumentale bombardamento dell’aviazione egiziana su postazioni jihadiste, con le dichiarazioni non comprovabili di aver ucciso 15 terroristi, appare velleitario e inquietante quanto la dichiarazione rilasciata dello stesso al-Sisi: “Ci vendicheremo, le forze armate risponderanno con forza brutale”. Parlare di vendetta e brutalità anziché di giustizia e vicinanza alle vittime non è certo un bel segnale e rende bene l’idea di quale sia la vera natura del regime che governa l’Egitto col beneplacito dell’Occidente.

Forse l’instaurazione di governi democratici nelle nazioni islamiche, come si era auspicato nel periodo delle “primavere arabe”, è ancora un sogno prematuro, ma alle cancellerie e all’opinione pubblica occidentali dovrebbe diventare finalmente chiaro che per la lotta al terrorismo non è sufficiente la sola militarizzazione del territorio, ma è cruciale una scelta attenta delle alleanze nell’area, dove ancora oggi vengono considerati affidabili regimi che non lo sono affatto, o perché non sono in grado di controllare il territorio (come in Egitto o, ancor più, in Libia) o perché sono essi stessi parte del problema, in quanto finanziatori e fiancheggiatori del fanatismo terrorista, come l’Arabia Saudita. Finché non cambieremo radicalmente la nostra prospettiva e il nostro approccio nelle questioni mediorientali, il terrorismo troverà sempre nuova linfa vitale, sufficiente per arrivare a colpire non solo in remote zone delle terre islamiche, ma anche nelle nostre città, come troppe volte è accaduto in tempi recenti.

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