L’indipendenza logora

Per certi versi, sembra che l’indipendenza stia diventando l’opposto del potere: quest’ultimo, sosteneva qualcuno, “logora chi non ce l’ha”. L’indipendenza, invece, logora chi ce l’ha, almeno a giudicare dalle ultime vicende relative a pulsioni indipendentiste.

Su tutte, spicca la questione catalana, pericolosamente in bilico fra possibile scontro di popoli e farsa politica dagli sviluppi surreali. Tralasciando i contesti storici più remoti, si può dire che l’attuale questione catalana nasce con la caduta in Spagna del regime di Franco, sotto la cui dittatura ogni aspirazione autonomista era stata soffocata. Col ritorno della democrazia e i nuovi assetti costituzionali, la Catalogna era già riuscita a ottenere molte concessioni dal governo di Madrid, ampliando progressivamente la propria autonomia fra momentanee battute d’arresto e nuove rivendicazioni. In particolare, il processo aveva visto una forte accelerazione grazie al dialogo con l’esecutivo centrale a guida socialista nei primi anni duemila, con la stesura di un nuovo statuto della Catalogna approvato tramite referendum dal 74% dei Catalani. Poteva essere un ottimo compromesso, ma col ritorno al potere dei Popolari, Madrid ha rimesso in discussione e limitato l’autonomia precedentemente concessa. Questo fatto ha provocato un risorgere delle rivendicazioni autonomiste che, in un crescendo di reciproche rigidità fra istituzioni catalane e governo centrale, è sfociato nella richiesta di indipendenza.

Una pretesa velleitaria, visto l’ampio margine di autonomia già conseguito e le conseguenze imprevedibili di una scissione dalla Spagna. Tuttavia, queste rivendicazioni sono state portate avanti e gonfiate da una classe politica opportunista, pronta a fomentare e cavalcare la “volontà popolare” per accrescere il proprio potere personale. Un atteggiamento irresponsabile che, anziché guardare al reale benessere dei cittadini, ha finito per creare uno scontro “muro contro muro” con l’autorità centrale, fino all’indizione unilaterale di un referendum per l’indipendenza. Se le istituzioni catalane hanno agito male, quelle di Madrid sono riuscite a fare peggio, tranciando la discussione politica per spostare la questione sul piano giudiziario e addirittura militare. La conseguenza è stata quella di un referendum boicottato dal governo centrale, svoltosi in condizioni di caos ed emergenza tali, a causa del pesante intervento delle forze dell’ordine, da inficiarne totalmente il risultato. Se infatti da un lato è parsa encomiabile la volontà civile e pacifica dei catalani di portare avanti comunque la consultazione, dall’altro è chiaro che essa non poteva avere alcuna pretesa di legittimità, sia dal punto di vista costituzionale che per le condizioni emergenziali e antidemocratiche in cui si è svolta.

A seguire, una serie di stucchevoli rimpalli fra autorità catalane e spagnole, fino alla farsa finale: l’aspirante premier catalano Puigdemont che scappa in Belgio per evitare l’arresto a seguito della dichiarazione dell’indipendenza della Catalogna, ritenuta da Madrid incostituzionale, un vero e proprio attentato all’integrità della Spagna. Inseguito da un mandato di cattura internazionale, Puigdemont è ora sotto custodia a Bruxelles, insieme ad altri quattro transfughi, tutti esponenti di un fantomatico “governo catalano in esilio”, a strillare perché l’Unione Europea si pronunci sulla questione catalana. Peccato che l’UE, già provata dalla lacerazione della Brexit, non abbia alcuna intenzione di dar corda alle velleità indipendentiste della Catalogna, ben conscia di quale effetto domino potrebbe avere una tale vicenda sulle innumerevoli pulsioni separatiste-autonomiste-indipendentiste che serpeggiano in tutta Europa. Così l’aspirante premier e gli altrettanto aspiranti ministri catalani si ritrovano a bighellonare a Bruxelles, fra inutili richieste di incontri alle istituzioni europee e interrogatori della magistratura locale, che deve valutare se estradarli verso Madrid, che li attende a braccia aperte per sbatterli in galera, come ha già fatto con i loro omologhi rimasti in patria. Il tutto mentre la tensione popolare cresce parallelamente alle pulsioni indipendentiste catalane, mai così forti, grazie alla politica ottusamente repressiva di Madrid.

Parallelamente, l’UE si trova ad affrontare l’altra scissione nominata poc’anzi, quella Brexit che si è rivelata anch’essa assai controproducente per tutti i cosiddetti leader che l’avevano cavalcata, a cominciare dall’ex Premier Cameron. Proprio quest’ultimo, che aveva brandito la minaccia dell’uscita britannica dall’UE come una clava per ottenere ulteriori concessioni dall’Europa, oltre alle numerose agevolazioni di cui la Gran Bretagna già godeva, si è ritrovato prima a far campagna elettorale contro il referendum da lui stesso indetto, poi, a seguito dell’esito referendario, è stato costretto a dare le dimissioni. Sorte analoga per molti dei fautori del medesimo referendum, scomparsi dalla scena politica o fortemente ridimensionati da quello che, paradossalmente, avrebbe dovuto essere un loro successo, un trampolino per aumentare il proprio peso politico. Al contrario, l’Europa sempre debole e divisa per una volta è stata decisa e determinata, impostando una trattativa per l’uscita britannica dall’Unione senza sconti e favoritismi. Tanto che l’attuale esecutivo di Londra, nato proprio con la priorità di pilotare l’uscita del Regno Unito alle condizioni di miglior favore, si trova in difficoltà sia con l’opposizione parlamentare che all’interno del proprio stesso schieramento.

Ancora, a migliaia di chilometri di distanza, nell’inquieto Medio Oriente, si sta consumando una vicenda similare, anche se per alcuni aspetti assai diversa. Dopo decenni di rivendicazioni, anche il Kurdistan iracheno ha deciso di indire un referendum per sancire il proprio distacco dall’Iraq, una indipendenza che nei fatti già sussiste fin dall’epoca della Seconda guerra del Golfo, che spazzò via il regime di Saddam Hussein, spezzando l’unità territoriale di uno Stato peraltro creato a tavolino con gli accordi fra le potenze vincitrici del primo conflitto mondiale. La regione curda, che occupa la parte settentrionale dell’Iraq, da anni vive e si amministra in maniera praticamente autonoma rispetto al governo centrale di Baghdad, una realtà che il referendum avrebbe solo formalizzato e alla quale i curdi pensavano ormai di avere diritto, specie dopo il contributo determinante nella lotta al sedicente Califfato dell’Isis. Sono stati proprio i curdi, infatti, a combattere con più determinazione contro i tagliagole del cosiddetto Stato islamico, frenandone l’avanzata in territorio iracheno e consentendo a migliaia di persone di fuggire e mettersi in salvo, venendo accolti come profughi proprio dalle autorità curde. Il tutto mentre l’esercito di Baghdad, addestrato, finanziato e armato dagli Usa, si ritirava senza quasi combattere, abbandonando al proprio destino persone e territori, lasciando sul campo anche le proprie dotazioni militari, a disposizione dei terroristi.

In compenso, l’esercito di Baghdad si è mosso con inaudita rapidità nel momento in cui il Kurdistan ha dichiarato la propria indipendenza: i carri armati che erano rimasti parcheggiati nelle caserme quando l’Isis avanzava apparentemente inarrestabile sono stati indirizzati verso nord, per impedire la realizzazione del sogno di uno stato curdo. Nonostante il contributo decisivo nella lotta all’Isis, nonostante rivendicazioni decennali, nonostante le parziali e ambigue aperture degli Usa, la nazione curda resta divisa sui territori di quattro stati sovrani, oltre all’Iraq anche l’Iran, la Turchia e ciò che resta della Siria. Troppo forti le opposizioni di questi Stati, troppo complicate le conseguenze geopolitiche in questo complesso e martoriato Medio Oriente, troppo strategici, soprattutto, i campi petroliferi di Mosul, in Iraq, per lasciarli in mano a una Nazione curda finalmente indipendente. Così Masʿūd Bārzānī, presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno, promotore del referendum e presidente in pectore dell’auspicato Stato curdo, ha rassegnato le dimissioni, anche lui travolto da un’indipendenza possibile, ma negata.

Insomma, ai vari politici che portano avanti istanze indipendentiste, compresi i Governatori del Nord-est d’Italia, verrebbe da ricordare il famoso aforisma di Oscar Wilde: “Ci sono due tragedie nella vita: la prima è non riuscire a soddisfare i propri desideri, la seconda è riuscirci.”

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