“Jérusalem” inaugura il Festival Verdi 2017

Hugo De Ana firma un allestimento kolossal per il rifacimento francese in stile grand-opera de “I Lombardi alla prima Crociata”.

Jérusalem di Giuseppe Verdi al Teatro Regio di Parma – Foto di Roberto Ricci.

Una inaugurazione davvero significativa quella che ha visto aprire il Festival Verdi 2017 al Teatro Regio di Parma con Jérusalem, proposta nella edizione critica di Jürgen Selk. L’opera, certo meno nota de I Lombardi alla prima Crociata, della quale è il riadattamento in lingua francese, segnò l’importante debutto di Verdi sulle scene parigine nel 1847 e non appare certo la copia in carta carbone della versione italiana. Anzi, è sostanzialmente una partitura in gran parte nuova, che nelle mani dei librettisti Alphonse Royer e Gustave Vaëz ha una sua autonomia drammatica e cambia soggetto divenendo più chiaro e lineare nella narrazione, nel rispetto di quei canoni competitivi, cari alla Parigi del tempo, che richiedevano la presenza dei ballabili (in questa occasione eseguiti nella versione integrale) e di una struttura formale che appare più raffinata e fluida, rispondente ad un teatro musicale fatto di grandi pannelli d’ambiente tali da rendere la partitura un affresco che, per quanto non del tutto verosimile quanto a fedeltà storica nell’evocare l’epopea delle Crociate in sala romantica, appare di respiro grandioso, a tratti solenne nel celebrarne il mito con sfumature in chiave colonialista. La dinamica degli accadimenti, messi in relazione al sottofondo ambientale, è più curata nella versione parigina che, seppur meno nota, appare oggi a Parma in tutta l’importanza che le compete nella parabola del linguaggio compositivo verdiano.

Jérusalem di Giuseppe Verdi al Teatro Regio di Parma – Foto di Roberto Ricci.

Tutto questo è stato percepito grazie ad un allestimento e ad una esecuzione che rimarranno negli annali delle migliori produzioni viste al Festival Verdi negli ultimi anni, termometro di una rassegna musicale che via via sta evolvendosi verso le caratteristiche proprie ad un vero Festival, offrendo una programmazione ricca, ma soprattutto capace di sperimentare e, per quanto più possibile, di donare un valore aggiunto alla prassi esecutiva contemporanea del repertorio verdiano. Una sfida non facile da affrontare e da condurre in porto, che conferma anche l’impegno della Città nel credere in Verdi come volano di promozione culturale svolta ai massimi livelli a favore del territorio. Affiancato da altre produzioni che hanno osato di più sul piano registico, come è avvenuto per Stiffelio affidato alla regia di Graham Vick, lo spettacolo che Hugo De Ana firma in coproduzione con l’Opéra di Montecarlo rimane fedele ad una idea di monumentalità figurativa nel segno della tradizione, eppure mediata da tutte le possibilità offerte oggi dalla moderna tecnologia. Nel disegnare di suo stesso pugno scene e costumi, Da Ana utilizza sofisticate proiezioni e video, si avvale delle luci oniriche e caldissime di Valerio Alfieri, delle coreografie di Leda Lojodice per le danze, ma soprattutto persegue una idea di grandeur figurativa sceno-tecnica che rende giustizia al respiro del grand-opéra al quale genere Jérusalem appartiene.

Jérusalem di Giuseppe Verdi al Teatro Regio di Parma – Foto di Roberto Ricci.

Dalle gigantesche pareti nere che paiono di pietra lavica del Palazzo del Conte di Tolosa, irradiate da luci dorate e d’argento, si passa alle distese sabbiose desertiche della Palestina, luogo d’eremitaggio del pentito Roger e poi sede di raccolta dei pellegrini e raduno dei guerrieri nel campo dei Crociati pronti a liberare Gerusalemme dal giogo musulmano. L’harem dell’Emiro ha i profumi dell’Oriente antico, così come il primo quadro dell’opera, attraverso proiezioni di gotiche vetrate colorate, offre tutto ciò che occorre perché lo spettacolo si assesti nel solco formale del kolossal, con scene di massa gestite al meglio, dove fra improvvise cascate di sabbia che coprono la distesa desertica, sventolii di bandiere crociate, sfavillio di spade e costumi di preziosissima fattura si ha l’idea di uno spettacolo che inquadra la vicenda in un decorativismo storicamente attendibile e funzionale ad una regia perfettamente in linea con la chiarezza di sviluppo del racconto. 

Jérusalem di Giuseppe Verdi al Teatro Regio di Parma – Foto di Roberto Ricci.

Nei tableaux vivants creati dalla colta mediazione visiva di De Ana, la capacità di far teatro non si perde in un figurativismo di maniera, ma si percepisce attraverso uno sfarzo illustrativo che ha valenze simboliche: da un lato il mondo chiuso e ferroso di un Occidente medievale desideroso di conquista, dall’altro le distese desertiche orientali intese come approdo alla libertà. E gli stessi personaggi sono calati, anzi integrati in un meccanismo visivo così sofisticatamente meditato da lasciare lo spettatore affascinato dall’ammirazione di tanta bellezza. Una certa frangia di critica arriccia il naso, mentre al pubblico, ed è ciò che più conta, tutto questo piace assai. Sul piano musicale va registrata l’ottima direzione di Daniele Callegari, alla testa della Filarmonica Arturo Toscanini e del Coro del Teatro Regio di Parma, capace di tenere sotto controllo il grande affresco corale che quest’opera regala con buon controllo del palcoscenico, equilibrio nelle sonorità e pittura sonora d’ambiente. Manca forse qua e là di fantasia, ma la compagnia di canto, alla quale viene chiesto un impegno davvero considerevole, è seguita con attenzione e sensibilità. Il terzetto dei protagonisti e nell’insieme ragguardevole.

Jérusalem di Giuseppe Verdi al Teatro Regio di Parma – Foto di Roberto Ricci.

Michele Pertusi affronta la parte di Roger mettendo a frutto il meglio della sua ormai consolidata esperienza in terreno verdiano, maturata nel tempo dopo tanta frequentazione col repertorio belcantistico. Questo rende la sua voce sempre morbida, elegante, impeccabile nel legato. Si fa scappar via qualche nota grave, che non possiede in natura, ma sa cosa significa cantar sul fiato e donare al suo canto quella necessaria ricerca della sfumatura che appare evidente anche quando la voce dovrebbe esser forse più proterva ed eloquente. Ma in questo caso non parlerei di limiti, bensì di perfetta adesione al ruolo commisurata alle proprie caratteristiche vocali ed espressive, che mirano ad una caratterizzazione nobilmente introspettiva della parte, umanamente sofferta nella ricerca dell’espiazione per le colpe commesse.

Jérusalem di Giuseppe Verdi al Teatro Regio di Parma – Foto di Roberto Ricci.

Anche Annick Massis non avrebbe tutte le carte in regola per essere una Hélène ideale, ma vince alla grande quella che per lei rappresenta una vera e propria sfida. Poco importa se il retrogusto asprigno della voce qua e là prende il sopravvento e si fa più evidente quando cerca nel registro grave uno spessore di voce che non possiede (come nella seconda parte dell’aria del terzo atto) e che deve conquistare con tenacia. Le riserve, se così si possono chiamare, finiscono però qui. Per il resto si conferma la cantante della quale già si conoscevano i meriti, che vanno dalla capacità davvero squisita di modulare la voce nelle pagine liriche (da antologia l’esecuzione della preghiera alla Vergine Maria del primo atto, “Vierge Marie”, e le note sfumate ad arte in acuto in “Mes plaintes sono vaines!”), senza che il suo lirismo appaia mai freddo, perché sostenuto da un accento e da un temperamento che la rende sicura sempre, anche nel canto di agilità (“Quelle ivresse!”), oltre che interprete autentica, sempre padrona della scena. Una prova a conti fatti sorprendente, che viene da una cantante capace di mettere a frutto, come avviene per Pertusi, la sua vocazione belcantistica e di applicarla con intelligente musicalità alle esigenze del canto verdiano.

Jérusalem di Giuseppe Verdi al Teatro Regio di Parma – Foto di Roberto Ricci.

Cosa che invece avviene non del tutto in Ramon Vargas, che è tenore dalla voce bella, di morbido impasto latino; eppure la difficilissima parte di Gaston, che Verdi riprese trasformando radicalmente quello che era l’Oronte dei Lombardi alla prima Crociata sulle caratteristiche vocali di Gilbert-Louis Duprez – il leggendario tenore passato alla storia per essere l’inventore del “do di petto” – richiede impennate acute nell’aria “Je veux encor entendre” e poi una declamazione che si fa via via sfogata nella grande scena della degradazione del terzo atto, Ô mes amis, mes frère d’armes”, e nella successiva cabaletta, dove la linea di Vargas non ha l’involo e la sicurezza richieste e dove è costretto ad escogitare qualche sotterfugio per evitare incidenti dinanzi ad una declamazione che manca del bruciante vigore richiesto. Riesce nell’impresa perché è cantante di classe, ma l’amarezza di non aver sentito quel profumo di vocalità antica che questa parte porta con sé non è stata poca. Nelle parti di contorno va segnalata la buona prova di Valentina Boi, Isaure, e gli alti e bassi delle prestazioni degli altri interpreti: Pablo Galvez, Le comte de Toulouse, Deyan Vatchkov, Adhémar de Monteil, Paolo Antognetti, Raymond, Massimiliano Catellani, L’émir de Ramla, Matteo Roma, Un officier de l’émir e Francesco Salvadori, Un hérauld e Un soldat. Alla fine delle quasi quattro ore di spettacolo, eseguito con un solo intervallo, nessuna riserva del pubblico, né tanto meno da parte del famigerato e incontentabile loggione (e questo è già un traguardo), prodigo di applausi, ma non generosi come lo sforzo produttivo di questo bellissimo spettacolo avrebbe certamente meritato.

Jérusalem di Giuseppe Verdi al Teatro Regio di Parma – Foto di Roberto Ricci.

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