Trattato CETA Canada – UE

Una delle poche realtà produttive italiane che abbia contenuto i danni della crisi economica ormai decennale è il Made in Italy agroalimentare, le nostre filiere di eccellenza nell’enogastronomia. Una realtà economica tipicamente locale, ma al tempo stesso ben conosciuta e apprezzata nel mondo intero, che occorre tutelare al meglio. Va in questo senso, per esempio, il recente decreto del Consiglio dei Ministri che reintroduce l’obbligo di indicare in etichetta lo stabilimento di produzione o confezionamento degli alimenti, in modo da consentire un controllo ancora più puntuale sulla filiera che arriva fino al consumatore finale.  

Provvedimenti di questo tipo vanno nella giusta direzione per tutelare il nostro patrimonio enogastronomico, ma rischiano di venire vanificati in caso di ratifica di accordi sovranazionali che risulterebbero predominanti sulla legislazione italiana, per cui è importante la vigilanza ed eventualmente l’opposizione nei confronti di disposizioni che rischino di andare a minare il valore aggiunto delle nostre peculiari produzioni agroalimentari. Un lavoro che deve essere svolto in primis da Governo e Parlamento, ma anche l’opinione pubblica può e deve fare la sua parte, seguendo con attenzione ciò che accade in questo ambito cruciale.

Il pericolo più grande in questo senso era il famigerato TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership, Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti) in fase di negoziazione fra Stati Uniti e Unione Europea, a lungo contestato da ampi settori della società civile e ora apparentemente accantonato per via delle nuove linee guida isolazioniste che caratterizzano l’attuale Amministrazione americana.

Ma non meno insidioso è il CETA ( Comprehensive Economic and Trade Agreement, Accordo economico e commerciale globale) siglato fra UE e Canada, di cui è recentemente entrata in vigore la fase di applicazione “provvisoria”, che tuttavia prevede già l’introduzione del 90% delle norme in esso contenute. Norme che, appunto, rischiano di indebolire gli standard qualitativi e di controllo europei –e di riflesso quelli, elevatissimi, italiani- a tutto vantaggio delle multinazionali nordamericane.

Il CETA –evidenzia una nota di Greenpeace- darà alle aziende del Nord America diversi strumenti per indebolire gli standard europei su ormoni della crescita, OGM, “lavaggio” della carne con sostanze chimiche, clonazione animale. A rischio anche le nostre regole sull’indicazione del Paese d’origine in etichetta (Country of Origin Labelling – COOL)”. Questo perché, spiega Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura sostenibile e Progetti speciali di Greenpeace Italia «Il Canada ha standard di sicurezza sul cibo più deboli e un settore agricolo molto più dipendente da sostanze chimiche e OGM rispetto all’Unione europea», suggerendo che per questo motivo « […] gli Stati Membri devono rigettare il CETA, a cominciare dal nostro Paese che altrimenti agirebbe a tutto svantaggio del nostro tanto invidiato Made in Italy».

Come detto, già oltre il 90 percento del trattato è entrato in vigore, nonostante manchi la ratifica da parte dei singoli Parlamenti nazionali. Tra le prime misure adottate c’è un abbassamento dei dazi, ma soprattutto l’avvio della cosiddetta “cooperazione normativa”, ovvero l’apertura di un canale attraverso il quale le multinazionali nordamericane potranno dialogare direttamente e in maniera privilegiata con i decisori politici dell’UE, svolgendo quella che viene usualmente definita “azione di lobby”, volta a presentare e far approvare ulteriori provvedimenti a loro vantaggio.

Nel frattempo, si sono attivati anche i Parlamenti di molti Paesi membri, per studiare le possibili ricadute sulle rispettive economie, mentre il Belgio, a inizio settembre, ha ufficialmente interpellato la Corte di Giustizia europea per avere un parere in merito al “Sistema di risoluzione delle controversie per la protezione degli investimenti” (Investment CourtSystem – ICS) previsto dall’accordo.

Questo perché sussiste la possibilità che, in presenza del suddetto sistema ICS di protezione degli investimenti, le multinazionali nordamericane dell’industria agroalimentare possano portare in giudizio di fronte a una corte arbitrale internazionale l’Ue e gli Stati Membri nel caso volessero implementare le norme sull’etichettatura di origine dei prodotti, ovvero quello che il nostro Paese ha appena fatto. Il discorso vale anche per le materie prime: il Canada esporta grandi quantità di frumento in Italia, ingrediente base del nostro piatto nazionale, la pasta. Se il nostro Paese portasse avanti legittime rivendicazioni per conoscere il luogo d’origine di tali frumenti, potrebbe essere trascinato davanti alla corte arbitrale per aver ostacolato il business delle aziende d’oltreoceano e rischierebbe pesanti sanzioni.

Discorso analogo per gli OGM. Organismi Geneticamente Modificati, sui quali i consumatori europei e italiani in particolare hanno manifestato a più riprese la loro diffidenza. Il loro utilizzo è invece ammesso e ampiamente diffuso in Canada, non solo nel settore strettamente agricolo: lo scorso anno, informa ancora Greenpeace <<le autorità canadesi hanno autorizzato il commercio del salmone OGM e circa 4,5 tonnellate di filetti di salmone OGM sono state già vendute in Canada senza nessuna etichettatura. Il CETA moltiplicherà le esportazioni di questo prodotto dal Canada all’Ue, abbassando le tariffe ed espandendone la quota di mercato. Considerata l’assenza di un sistema di etichettatura e tracciabilità in Canada, potrebbe diventare davvero complicato evitare l’immissione sul mercato europeo di salmoni OGM.>>

È evidente dunque che tutto il sistema di controlli su qualità e origine degli alimenti in vigore nell’UE e in particolare in Italia rischia di saltare a tutto vantaggio delle grandi multinazionali del Nord America e a discapito dell’eccellenza delle nostre produzioni tipiche, degli interessi delle nostre aziende di medio-piccole dimensioni e della tutela dei diritti dei consumatori, primo fra tutti quello di poter esercitare scelte consapevoli. È anche possibile, in effetti, che qualcuno decida di consumare prodotti OGM o carni gonfiate con gli ormoni perché competitive in termini di prezzo, però è giusto che tali caratteristiche vengano indicate in maniera trasparente sull’etichetta, in modo che ciascuno possa decidere secondo i propri gusti e le proprie convinzioni. Occultare tali informazioni – come avviene nel mercato nordamericano – sarebbe scorretto nei confronti dei consumatori, ma si tratta di una possibilità estremamente concreta, nel caso che il CETA venisse ratificato in via definitiva dai vari Paesi membri dell’UE. Fra questi, l’Italia in particolar modo avrebbe tutto l’interesse a bloccare un accordo sovranazionale che andrebbe a colpire pesantemente il nostro settore agroalimentare e le sue eccellenze. Per questo sarebbe auspicabile che le nostre autorità facessero muro contro l’introduzione del CETA, e sarebbe ancor più auspicabile se l’opinione pubblica e la società civile facessero pressione in questo senso. In caso contrario, per dirla in termini contadini, sarebbe proprio come darsi la zappa sui piedi.

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