Il Ferragosto della politica italiana

Quando l’ Italia era un Paese rural-industriale, cioè fino ad almeno ad una parte degli anni ’70 dello scorso secolo (cosa , invece, sia diventata oggi, sarebbe complicato definirlo,…) ci aveva abituati ad alcuni, tradizionali, riti estivi. Ricordiamo gli esodi dalle grandi città verso le mete di vacanza (con le utilitarie Fiat stra-caricate di bagagli e di persone) e, tra quelle mete, anche i luoghi di origine delle famiglie degli “immigrati”; già così –allora- si chiamavano gli italiani che avevano lasciato le campagne (del Sud, ma prima anche del Veneto, ma ancor prima del Piemonte e delle altre regioni del Nord) per raggiungere le città dell’industria, dove per lungo tempo furono considerati degli estranei….(ricordiamo i cartelli: “Non si affitta ai meridionali”, per chi non ne avesse memoria).

All’epoca le radici di tante persone rimanevano nei paesi di partenza e le ferie erano l’occasione di un momentaneo ricongiungimento, per ritrovare affetti ed usanze. Tra sagre e ricorrenze, spesso non mancava la tradizionale partita di pallone di Ferragosto tra “scapoli ed ammogliati” o, meglio, tra “padri e figli”, quando i cambiamenti sociali, intercorsi nel frattempo, avrebbero potuto rendere imbarazzante la definizione dello “status anagrafico” di un giocatore,… Il copione era pressoché lo stesso: i padri cercavano di fare squadra e cercavano il capitano, che sempre era l’ apparentemente riluttante vecchia gloria che, in realtà, non aspettava altro,… Si trattava di un signore un po’ imbolsito che si narrava avesse giocato in qualche campionato minore, probabilmente con mediocri risultati, ma che le leggende paesane e i ricordi ottenebrati dal vino dei lauti pasti, lo tramandavano come Pelè. Questi ormai non correva più, ma a centro campo dirigeva più a destra che a manca, quasi che il calcio l’avesse inventato lui. I figli, invece, si facevano ipnotizzare dal bulletto cittadino di turno, che li comandava a bacchetta, più in virtù della sua arroganza ed ambizione, che per meriti sportivi, ma i giovanotti locali, un po’ timidi ed imbarazzati, lo lasciavano fare, anche perché anche loro erano di non grande talento (infatti i giovani campioni anche al quindici di agosto si stavano allenando nei ritiri veri). Mancava ancora l’arbitro, che era sempre lo stesso: né giovane, né vecchio, né carne, né pesce: non lo voleva nessuno e piaceva a pochi, ma senza di lui non si sarebbe giocato,…

Così si svolgeva la partita del dopo pranzo, con un pubblico sempre più scarso e poco interessato, in quanto il gioco riguardava ormai solo i giocatori. Abitualmente vincevano i padri, o effettivamente col risultato o perché, comunque era andata a finire la partita, avevano sempre una scusa pronta: “Vedete cosa sappiamo ancora fare alla nostra età”,… “Senza di noi non si sarebbe neanche giocato”,… e via discorrendo. I giovani perdevano sempre: o per l’esito reale, o perché si diceva ogni volta che avrebbero potuto fare di più; perdevano anche perché, da eterni immaturi, avevano lasciato nuovamente un immeritato palcoscenico a personaggi che non erano mai stati vincenti. Quello che, invece, vinceva ogni volta era l’arbitro, l’antipatico rifiutato, ma molto richiesto, che teneva tutti in sospeso e al quale, infine, tutti dovevano qualcosa.

Se volessimo applicare queste categorie ludiche alla politica italiana, quali potrebbero essere i giocatori in campo? Chi sarebbero i capitani? Chi l’arbitro (quello di convenienza, non quello vero che sta al Quirinale)? I giovanotti locali? Ai lettori l’ “ardua sentenza”! E i campioni che se ne vanno dal Paese? Sono le generazioni dei giovani talenti che non restano qui, ma emigrano all’estero. E gli spettatori scocciati che completano il triste quadro? Sono i cittadini sempre più distanti dalla partecipazione e dalla gestione della cosa pubblica (re-pubblica) e, purtroppo, non si tratta solo di un gioco di un pomeriggio di mezza estate.

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