Rossini Opera Festival 2017

Le siège de Corinthe, La pietra del paragone e Torvaldo e Dorliska confermano l’alto livello delle proposte rossiniane pesaresi.

Le siège de Corinthe – Credito: Studio Amati Bacciardi.

Al popolo vacanziero che affolla l’assolato e accogliente litorale pesarese si mischia, nel mese di agosto, un pubblico di tutt’altro genere, colto e competente, molto internazionale; è il popolo dei fedelissimi del Rossini Opera Festival, o ROF come ormai è nota ai più la celebre rassegna musicale dedicata alle opere del genius loci, qui proposte con tutte le attenzioni filologiche possibili grazie alla Fondazione Rossini, che cura ormai da anni edizioni critiche di partiture anno dopo anno eseguite sul palcoscenico nei giorni di un festival giunto alla 38° edizione, dedicata alla memoria di Alberto Zedda. Quest’anno le attenzioni maggiori sono andate alla edizione critica de Le siège de Corinthe, opera che Rossini realizzò per Parigi nel 1826 riprendendo la partitura di Maometto II, di sei anni precedente. Ma la nuova opera finì per differenziarsi dalla precedente, sia nella sostanza musicale e sia in un soggetto sbilanciato su tematiche più politiche che sentimentali, con l’inserimento d’obbligo, secondo il gusto dei palcoscenici parigini del tempo, delle danze. Riascoltata oggi, proposta nella versione critica curata da Damien Colas, ricalca il modello della prima esecuzione assoluta, ma con l’aggiunta di alcune pagine omesse prima dell’andata in scena; quindi integralissima, monumentale negli ensemble e con quella strutturalità compositiva che, memore della lezione di Cherubini e Spontini e dei modi del teatro musicale francese, aprirà la strada al Guillaume Tell e alla stagione del grand-opéra, anche se qui l’opera viene ancora definita tragedie-lyrique. Insomma, una partitura architetturalmente grandiosa, che l’arte di Rossini rende sublime.

Le siège de Corinthe – Credito: Studio Amati Bacciardi.

Eseguirla e metterla in scena è una vera impresa e il ROF ci ritenta dopo averla già proposta, con esiti alterni, nel 2000. Allora come oggi fece discutere la messa in scena. Quella attuale, firmata da Carlus Padrissa (per regie e scene) e da Lita Cabellut (per elementi scenografici e pittorici, costumi e video), del collettivo de La Fura dels Baus, lascia l’amaro in bocca. Esclusa l’idea di puntare sul prevedibile conflitto politico-religioso fra greci e turchi, riferendosi per altro al movimento indipendentista ellenico che negli anni in cui l’opera venne proposta era in piena fioritura, lo spettacolo si concentra all’opposto su una visione ecologista, come se ogni contrasto si basi sul possesso dell’acqua come bene in grado di determinare potere e supremazia in tempi di arsura e aridità dovuti a cambiamenti climatici. Il palcoscenico inclinato è un terreno crepato dai solchi della siccità sopra il quale sono accatastati l’uno sull’altro bottiglioni di acqua vuoti come fossero mura della assediata Corinto. Fin qui tutto chiaro, finché lo spettacolo non si complica apparendo criptico e talvolta incomprensibile, anche nelle scelte atemporali dei costumi, dai tessuti colorati con magma cromatici talvolta visibili anche nei video proiettati sul fondale del palcoscenico.

Le siège de Corinthe – Credito: Studio Amati Bacciardi.

Ma la musica vince su tutto, grazie alla direzione d’orchestra di Roberto Abbado, che seppur infortunato ad un braccio dirige l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (preziosa adozione del festival pesarese di quest’anno) con senso delle proporzioni sonore magistrale; così negli ensemble, nei finali d’atto, nei ballabili e nell’inno patriottico del terzo, come nei momenti lirici, ai quali viene donata una eleganza mai compiaciuta ma sempre perfettamente equilibrata all’incedere teso e solenne di una partitura di gran respiro. Ed anche il Coro del Teatro Ventidio Basso si mette in bella mostra e commuove nello splendido inno “Divin prophète” del secondo atto. Il cast vocale è nell’insieme ottimo, ma non si può nascondere una certa delusione nel riferire della prova di Luca Pisaroni nei panni di Mahomet II. La presenza scenica è quella giusta, ma la voce, pastosa e di bel colore nei centri, perde in morbidezza nella salita agli acuti, affannati e velati, così come l’accento e la coloratura non sono quelli del vero virtuoso, sfrontato e ardito nel canto di agilità come si vorrebbe. Maggior incisività parrebbe possedere Nino Machaidze, una Pamyra dal temperamento fascinoso ma dalla vocalità rigida e priva di morbidezza; se la voce non appare fluida nel canto di agilità e non sostiene con eleganza la linea dei cantabili, pagine come l’aria del secondo atto e la sublime preghiera finale, “Juste ciel”, scivolano via senza lasciar alcun segno di emozione.

Le siège de Corinthe – Credito: Studio Amati Bacciardi.

Dei due tenori, il primo, John Irvin, nei panni di Cléomène, è ammirabile, incisivo quanto basta, ma è a Sergey Romanovsky che viene affidato l’arduo compito di sostenere la parte di Néoclès, del tutto singolare nell’economia delle parti tenorili scritte da Rossini per il leggendario Adolphe Nourrit, che fu poi anche il primo Arnold nel Guillaume Tell, quindi per un haute-contre. Qui la coloratura cede il passo alla declamazione di involo classicheggiante e, come era consueto alla vocalità di Nourrit e alla scuola francese del suo tempo, la parola regola l’espressione del canto e determina anche l’evolversi di un acrobatismo che utilizza il declamato e il canto di sbalzo più che l’agilità per risultare solenne ed eloquente, all’occorrenza anche spavaldamente eroica, ma sempre con un’emissione sorvegliata da uno stile francese dissimile dalla vocalità solitamente pensata dal genio pesarese per le parti tenorili di contraltino e di baritenore e da quelle che diverranno le più specifiche tendenze del canto romantico all’italiana. Le impennate in acuto non mancano in questa parte; basta ascoltare la grande scena che apre il terzo atto, ambientata nelle tombe sotterranee di Corinto, per comprendere come Rossini sapesse appunto adeguarsi ai modi francesi scrivendo una pagina di difficoltà quasi sovrumana, memore di quanto sopra esposto. Il tenore Romanovsky ha il merito di eseguirla senza apparenti compromessi, che non è cosa da poco, e con una consapevolezza stilistica che fa percepire il profumo di questa antica scuola vocale parigina. Eccellente l’apporto del restante cast, con l’ottimo Carlo Cigni, Hiéros, Xabier Anduaga, Adraste, Iurii Samoilov, Omar, Cecilia Molinari, Ismène.

La pietra del paragone – Credito: Studio Amati Bacciardi.

Secondo titolo in cartellone è La pietra del paragone, opera che nel 1812 segnò il primo grande successo del giovane Rossini alla Scala di Milano. Pier Luigi Pizzi rimonta meravigliosamente uno dei suoi spettacoli pesaresi più riusciti e tanto per smentire – qualora ce ne fosse bisogno – chi non crede nelle sue qualità di regista, si sofferma sui personaggi e li fa recitare con scorrevolezza teatrale a dir poco geniale. Per dar veste scenica ad un’opera la cui azione – come si legge nell’illuminato saggio del compianto Alberto Zedda pubblicato nel programma di sala col titolo “amabile conversare di oziosi benestanti” – è uno “spaccato di società privilegiata dove in briosi convivi vengono affrontati temi quanto mai variegati”, Pizzi sposta l’ambientazione dal tempo di Rossini alla contemporaneità, apparendo sempre attuale. Ecco perché la vicenda ha luogo in una moderna villa borghese immersa nel verde, la cui struttura, a vetrate scorrevoli e a componenti architettoniche bianche e rosse in stile anni Settanta, rende ancor più ironicamente leggero e ritmicamente fluido il succedersi degli accadimenti; si fanno bagni in piscina, si gioca a tennis, si conversa al telefono o ci si rifocilla all’ombra di ombrelloni e tavolini sull’erba, in una atmosfera vintage molto chic.

La pietra del paragone – Credito: Studio Amati Bacciardi.

L’attualizzazione calza a pennello con un soggetto che narra del Conte Asdrubale, ricco signore cui ronzano attorno tante belle signore desiderose di impossessarsi dei suoi averi. Ma lui, saggiamente, non cede indistintamente ad alcun favore; vuole piuttosto mettere alla prova la sincerità dei loro affetti. Si traveste da creditore straniero e finge di aver perso tutti i suoi averi. Attraverso questa “pietra del paragone” può provare chi veramente lo ama (la Marchesa Clarice), smascherando le frivole pretendenti (la Baronessa Aspasia e Donna Fulvia). La vicenda galante si anima di una serie di personaggi che, come in tutte le epoche, altro non sono che specchio della società: Macrobio, giornalista convinto che essere direttore di un giornale significhi avere in pugno l’opinione pubblica, e due poeti: uno decisamente comico e greve nei modi, Pacuvio, l’altro gentile, il Cavalier Giocondo.

La pietra del paragone – Credito: Studio Amati Bacciardi.

Questa ripresa pesarese è animata dall’effervescente fuoco ritmico rossiniano della bacchetta di Daniele Rustioni, anche se forse poco consapevole di quanto questa partitura risenta di umori settecenteschi cimarosiani che qui stentano a farsi percepire fra l’incalzare di ritmi e dinamiche concitate, e da un cast affiatato sul piano del coinvolgimento scenico ma alterno nella resa vocale. Il canto di Gianluca Margheri non è direttamente proporzionale alla massa muscolare che ne fa un Conte Asdrubale statuario e palestrato, eppur in lotta con agilità approssimative e con un’emissione opacamente impastata. Anche la Clarice del mezzosoprano Aya Wakizono ha voce sorda nei gravi e virtuosisticamente incolore. Le sorti del cast, una volta citate le prove funzionali di Aurora Faggioli, Baronessa Aspasia, e Marina Monzó, Donna Fulvia, migliorano ampiamente dinanzi all’acido sarcasmo, al dinamismo scatenato e al fraseggio impepato che fanno del Pacuvio di Paolo Bordogna un buffo dal taglio interpretativo sempre singolare, impagabile nella celebre aria “Ombretta sdegnosa”. Non gli è da meno il Macrobio di Davide Luciano, che nella grande aria “Chi è colei che s’avvicina?” si conferma un rossiniano di nuova generazione il cui apporto è fra i più preziosi per ruoli come questo. La grazia e l’eleganza a dir poco incantevoli con cui Maxim Mironov, Cavalier Giocondo, intona l’aria del secondo atto, “Quell’alme pupille”, sono tali da confermare come classe, studio e consapevolezza stilistica possano talvolta più della voce stessa, in lui, per natura, non certo per limiti d’emissione, di volume un po’ limitato. Completa la compagnia William Corrò, Fabrizio. Ciliegina sulla torta è la determinante presenza di Richard Barker al fortepiano, così che il miracolo di questa Pietra si compie e scatena l’entusiasmo del pubblico nella trionfale passerella degli applausi finali.

Torvaldo e Dorliska – Credito: Studio Amati Bacciardi.

Lasciati gli ampi spazi della Adriatic Arena, dove sono stati messi in scena i primi due spettacoli, il terzo titolo del ROF 2017 è Torvaldo e Dorliska al Teatro Rossini. Anche in questo caso si tratta di una ripresa del fortunato spettacolo allestito alcuni anni or sono a Pesaro da Mario Martone, abile nello sfruttare al meglio il genere non certo facile al quale l’opera appartiene, quello semiserio, per ideare un allestimento che pare sbilanciato sulla componente seria di un’opera che, nel soggetto, riprende un tema già sviluppato in quelle tante opere che, secondo i dettami dei cosiddetti pièce à sauvetage che a fine Settecento popolarono le scene operistiche, seguono l’onda dei rivolgimenti sociali ed etici che animarono le trame stesse, utilizzati finché il genere assecondò il corso degli eventi storici dell’epoca. Andata in scena per la prima volta al Teatro Valle di Roma nel 1815, l’opera non è fra le più fortunate di Rossini, eppure in essa si individuano diverse perle musicali, fra le quali il terzetto del primo e il quintetto del secondo atto. La vicenda narra di Dorliska, in cerca dell’amato sposo Torvaldo, perseguitato dal perfido Duca d’Ordow, che imprigiona entrambi nel suo castello; i coniugi riescono a riunirsi grazie ad una rivolta fomentata dall’intraprendente Giorgio, personaggio comico al servizio del Duca, il quale, con la complicità della sorella Carlotta, riesce a liberare i due giovani dalle grinfie del tiranno. Quest’ultimo è personaggio di cattiveria inaudita, che racchiude in sè i tratti di una spietata tirannia mista ad una carica di concupiscente temperatura erotica, scaricata con violenza contro la sventurata Dorliska. Lo spettacolo di Martone mette in scena la vicenda come un romanzo gotico dell’Ottocento romantico, con scene di Sergio Tramonti e costumi di Ursula Patzak che pensano di ambientare l’opera come se palchi e platea stessi del Teatro Rossini fossero la dimora del Duca, mentre sul palcoscenico si vede una cancellata arrugginita al di là della quale c’è una spettrale e impenetrabile foresta.

Torvaldo e Dorliska – Credito: Studio Amati Bacciardi.

Attraverso un abile impiego di passerelle, la platea viene coinvolta nel gioco narrativo, anche quando, durante la preparazione alla sommossa che prelude al lieto fine, vengono lanciati in sala dal loggione dei foglietti che precedono la rivolta contro il tiranno (velata citazione risorgimentale alla celebre prima scena del film viscontiano Senso). La bellezza dello spettacolo è corrisposta da un rendimento musicale che la bacchetta di Francesco Lanzillotta fa di tutto per ottenere con l’Orchestra Sinfonica G. Rossini, la quale non avrà certo la pulizia di suono e la precisione di quella della Rai, eppure segue i dettami di una lettura raffinatamente aderente, per dirla con parole di Giovanni Carli Ballola, a quella “tinta severa che serpeggia di scena in scena” e dona all’opera una configurazione destinata a nuove aperture drammatiche nella parabola compositiva rossiniana, consapevole non solo più del credo del “bello ideale”. Il cast vocale è davvero eccellente nelle voci gravi protagoniste. Nicola Alaimo si conferma cantante versatile e vocalmente ineccepibile e, come spesso e volentieri capita vedendolo in scena, offre un valore aggiunto ad una interpretazione che, nel caso del malvagio e bieco Duca d’Ordow, esce da ogni scontato cliché. Non ne fa una incarnazione vampiresca e libidinosa, quasi fosse uscita da un racconto del Marchese De Sade, ma alla sprezzante e sadica sensualità antepone una umanità toccante che, nel gioco continuo fra perfidia d’animo (in lui mai forzatamente sinistra) e voluto abbandono sentimentale, rende il personaggio più spontaneo e autentico, meno inesorabilmente vendicativo ma certo più verosimile, consono alla personalità di Alaimo e alla naturale morbidezza della sua voce. Solo alle agilità, per un ruolo di protervo tiranno come questo, manca forse il mordente del belcantista puro, non “contaminato”, come nel suo caso, dalla frequentazione con altri repertori. Anche Carlo Lepore, che nei panni di Giorgio sembra una sorta di Leporello in salsa rossiniana, si conferma cantante di solida tenuta vocale, ispirata espressività e dizione perfetta. Ottimo il tenore Dmitry Korchak, Torvaldo, qui in una delle sue prove migliori al momento in cui intona l’arioso amoroso “Dille, che solo a lei rivolto è il pensier mio” con languido abbandono nostalgico.

Torvaldo e Dorliska – Credito: Studio Amati Bacciardi.

Dopo l’affermazione come Elena ne La donna del lago dello scorso anno, il soprano Salome Jicia, Dorliska, uscita dalle fila della Accademia Rossiniana pesarese, si ammira per essere cantante di indubbio interesse, in continua crescita, virtuosisticamente rilevante oltre che azzeccata nel cogliere il fiero eroismo femminile che la vede fedele all’amato Torvaldo ed ostile alle pressanti profferte amorose del Duca. Nei ruoli di contorno si distingue Raffaella Lupinacci, bravissima Carlotta, mentre accettabile è Filippo Fontana, Ormondo, al quale spetta l’aria di sorbetto “Sopra quell’albero vedo un bel pero”, quando il personaggio si arrampica su un pero per staccare il suo più bel frutto e termina la sua golosa impresa con una rovinosa caduta dall’albero.

Anche per questo spettacolo applausi trionfali per tutti, mentre il Rossini Opera Festival già annuncia la prossima edizione 2018, che dall’11 al 23 agosto vedrà tre nuovi allestimenti di Riccardo e Zoraide, Adina e Il barbiere di Siviglia.

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