Foreste

 

Fra le molte tragedie che hanno funestato le cronache recenti, ce n’è una che fa suonare nuovamente il campanello d’allarme su un tema troppo spesso considerato di secondo piano: l’Ambiente. Il riferimento è agli incendi forestali che hanno colpito il Portogallo, causando decine di vittime e un danno incalcolabile al patrimonio boschivo e al territorio. Fra le cause della rapida propagazione delle fiamme, le temperature elevate di queste giornate estive, i venti e l’assenza di umidità, dovuta alla siccità prolungata che ha colpito quelle zone, dove le precipitazioni sono state pressoché nulle nell’ultimo periodo. In un ambiente così inaridito è bastato che qualche “fulmine secco” (cioè saette in assenza di pioggia) cadesse sulla vegetazione per scatenare dei focolai d’incendio che in poco tempo sono dilagati su ampie porzioni di foresta.

Le condizioni atmosferiche estreme che hanno favorito il disastro sono, ancora una volta, il risultato dei cambiamenti climatici in atto. La causa di tali scompensi è il surriscaldamento globale, a sua volta indotto dall’accumulo di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera, che provoca il cosiddetto “effetto serra”. E, per aggiungere danno al danno, proprio questi incendi contribuiscono a emettere ulteriori quantitativi di CO2, aggravando ulteriormente la situazione. Più in generale, proprio la deforestazione è fra le cause principali dell’effetto serra, perché elimina le piante che, con i loro processi biochimici, riescono a estrarre CO2 dall’atmosfera fissandola all’interno delle proprie fibre. Se poi la deforestazione avviene col metodo del “taglia e brucia”, la situazione diventa ancora più critica, sia per il rilascio immediato dell’anidride in atmosfera, sia per i problemi di salute causati dai fumi.

Una situazione ben nota a Martina Borghi, responsabile Foreste di Greenpeace Italia, che si è occupata di queste problematiche relativamente alle foreste indonesiane: “l’Indonesia –evidenzia Borghi- è relativamente meno estesa rispetto alle superfici, per esempio, dell’Amazzonia, ma i danni provocati in queste zone sono molto gravi. Il fatto è che da queste parti la foresta giace su uno strato a torbiera, per cui la pratica del “taglia e brucia” ha effetti particolarmente devastanti. Le quantità di fumi rilasciate dagli incendi boschivi appiccati regolarmente in queste zone si spandono su aree vastissime, provocando un inquinamento letale. Vari studi affermano che la presenza di fumi e ceneri ha influito pesantemente sulla salute dei residenti, provocando anche fenomeni epidemiologici di pre-morienza per patologie indotte dall’inalazione  di aria insalubre”. In pratica e intuitivamente, respirando i fumi degli incendi ci si ammala di più e si muore prima. Ma allora perché si continua a bruciare la foresta? “La legislazione locale –spiega Borghi- non impone l’obbligo di dichiarare le proprietà delle porzioni di foresta legalmente concesse per lo sfruttamento. Ne consegue che gli usufruttuari allargano indebitamente i confini delle proprie concessioni incendiando le zone forestali limitrofe, senza che sia possibile attuare controlli efficaci. Tutto ciò perché il Paese ha puntato molto sullo sfruttamento intensivo – e insostenibile – della palma da olio”. Un prodotto, l’olio di palma, estremamente richiesto da varie filiere produttive, dall’alimentare ai cosmetici. Un mercato che rischia, letteralmente, di mandare in fumo un patrimonio ecologico inestimabile, “dove – sottolinea Borghi- esistono specie rare ed endemiche, come l’orango”.

La perdita di biodiversità è un problema ancor più grave in Amazzonia, dove però la devastazione non arriva dal fuoco, bensì dall’acqua: “di recente – evidenzia Borghi – Greenpeace, con l’aiuto delle popolazioni indigene locali è riuscita a bloccare il progetto di mega-diga sul fiume Tapajos, nello Stato del Parà, che se attuato avrebbe comportato l’allagamento di ettari di foresta, con un drammatico impoverimento della biodiversità e del patrimonio boschivo. Tuttavia la situazione in Brasile resta complessa, specie dopo la destituzione di Dilma Rousseff e la sua sostituzione col vicepresidente Michel Temer, che governa senza essere stato eletto dal popolo. Il suo esecutivo ha immediatamente manifestato un cambio di indirizzo nelle politiche di protezione forestale e dei territori ancestrali degli indigeni, tagliando i fondi al FUNAI, l’organismo che si occupa di verificare il rispetto delle zone sottoposte a tutela in quanto di pertinenza delle popolazioni autoctone. Ne consegue che territori teoricamente protetti di fatto non lo sono. Questo anche a causa degli intrecci politico-economici che privilegiano determinati interessi, quali le coltivazioni di soia o gli allevamenti di bestiame insediati su terreni rubati alla foresta. Come Greenpeace avevamo iniziato un’azione di moratoria contro queste produzioni, ma siamo stati costretti a sospendere l’iniziativa perché con l’attuale governo non sussistono le condizioni per operare in tal senso. Il rischio è che il progetto di mega-diga sul Tapajos venga ripreso, portando a una situazione come quella di Belo Monte, dove una diga di grandi proporzioni ha creato un bacino di allagamento molto vasto, a scapito della foresta preesistente. Un danno per l’ecosistema a cui si devono aggiungere gli impatti delle infrastrutture “di servizio” alla diga: strade di collegamento, elettrodotti e così via”.

Ma non è solo l’emisfero Sud a subire questo tipo di aggressioni alle risorse forestali: anche nel civilissimo (?) Nord del mondo le pratiche distruttive stanno diventando la regola, col conseguente depauperamento accelerato della foresta boreale, vera “corona verde” del pianeta. Il caso limite è la Russia, dove le foreste vengono considerate “miniere di legname”e lo sfruttamento è letteralmente predatorio, con le compagnie del legno che ottengono le licenze per una determinata zona, la radono al suolo in tempi brevissimi e poi si spostano altrove, con il medesimo modus operandi. Un sistema di sfruttamento chiaramente insostenibile, con gravi ricadute ambientali, ma anche socio-economiche, poiché la manodopera locale, terminato lo sfruttamento intensivo, viene lasciata a casa, mentre le aziende spostano i loro interessi in nuove aree di taglio. Qui Greenpeace ha cercato di intervenire nello Stato di Arcangelo, quello maggiormente interessato dal mercato europeo, introducendo il concetto di “Paesaggio Forestale Intatto” nel tentativo di ottenere misure di tutela della Foresta Dvinsky, una delle ultime porzioni di foresta vergine nonché habitat delle renne selvatiche, ormai in via d’estinzione . Purtroppo, le preoccupazioni ambientaliste faticano a farsi spazio nei confronti dei preponderanti interessi dei commercianti di legname.

Non va meglio nei Paesi scandinavi, dove “occorre sfatare – rimarca ancora Borghi – il mito dell’attenzione all’ecologia, alimentato dal fatto che nelle aree disboscate gli alberi vengono ripiantati. Quello che succede nella realtà è che la foresta originaria, con tutta la sua complessità biologica, viene sostituita da monoculture di alberi a elevata valenza commerciale, senza sottobosco e variabilità arborea, piantagioni assolutamente prive della biodiversità preesistente”. Infine, ancora più complicata, se possibile, la situazione in Canada, dove a fronte delle proteste di Greenpeace contro la deforestazione, il colosso del legname Resolute Forest Products ha risposto denunciando l’organizzazione ecologista. Evidentemente gli interessi in ballo sono enormi, tanto che l’azienda “taglialegna” non solo “ha denunciato le sezioni canadese, statunitense e internazionale di Greenpeace – evidenzia Borghi – ma lo stesso FSC, il consorzio che si incarica di certificare la sostenibilità dei prodotti forestali, nonché l’ente di ricerca che lo stesso FSC aveva incaricato delle verifiche”. Addirittura le accuse nei confronti di Greenpeace si basano su una legge concepita in origine per combattere la mafia. Chiaramente una sciocchezza colossale, ma da non sottovalutare: perché in ballo, oltre alla foresta canadese, c’è anche il diritto alla libertà di opinione, che rischia di essere soffocato da biechi interessi economici.

 

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