Manchester, il tempismo soprattutto

L’attentato di Manchester, come sempre in questi casi, assume un significato poliedrico. Ma un aspetto sembra prendere il sopravvento su tutti gli altri: la scelta dell’attuale momento internazionale. Ed è anche l’elemento che depone per un sofisticato lavoro criminale di pezzi di intelligence deviati rispetto ad improbabili ipotesi di elementi radicalizzati capaci di autonomia.
La stage alla Manchester Arena avviene, infatti, mentre il presidente americano Trump sul suo fronte interno è bersagliato da una campagna surreale di isteria antirussa fondata più che altro sulla volontà dello “stato profondo” americano di metterlo al tappeto, e mentre lo stesso presidente sta tentando nel suo primo tour di incontri internazionali (che lo ha portato anche nella nostra Penisola con l’atteso incontro con Papa Francesco) una difficilissima mediazione nell’incandescente e straconfuso scenario mediorientale.

Trump aveva chiesto alla conferenza di Riyad ai Paesi islamici (sunniti), in primis, all’Arabia Saudita – ritenuta la massima finanziatrice del fondamentalismo islamico wahabita e salafita nonché del terrorismo, da al Qaeda all’Isis – letteralmente di “cacciarli via” (drive them out), i terroristi dai loro Paesi. Vale a dire di interrompere ogni forma di sostegno sotterraneo al piano dei neoconservatori americani di destabilizzazione e di creazione di caos nell’area mediorientale, fondamentale crocevia di enormi interessi economico-finanziari e geopolitici.
È altrettanto vero che il discorso di Trump al mondo sunnita è colmo di ambiguità: è stato accompagnato dalla vendita di ingenti quantità di armamenti a un regime mostruoso come quello della casata dei Sa’ud; o la retorica guerrafondaia sfoderata nei confronti di un Iran che ha appena confermato la sua volontà di dialogo con la rielezione del moderato Rouhani.
Ma su entrambe queste grosse contraddizioni occorre dire qualcosa.

La compromissione con la feroce monarchia assoluta saudita, che fa rotolare con la scimitarra le teste degli oppositori politici, di chi professa altre fedi, e che calpesta i diritti delle donne e i diritti umani, e che è autrice di quella infame carneficina (di cui nessuno parla) di civili, donne e bambini, che è la guerra nello Yemen, può anche essere interpretata come un cambiamento di approccio da parte dell’amministrazione americana. Non più la dottrina Wolfowitz, del cambio di regime, dell’esportazione della democrazia o la strategia di Obama delle primavere arabe (che hanno prodotto conseguenze disastrose dall’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia, e che sono state sul punto di far collassare un Paese enorme come l’Egitto). Al suo posto un dialogo pragmatico con quelli che sono i detentori del potere, in funzione degli obiettivi prioritari della pacificazione del Medio Oriente e dello sradicamento del terrorismo.

Quanto all’Iran, si tratta di capire fino a che punto i toni bellicosi di Donald Trump vadano oltre l’obiettivo di compiacere l’Arabia Saudita, acerrima nemica di Teheran, e di soddisfare l’amico di famiglia Netanyahu. Anche Israele sta forse capendo che la devastazione compiuta dall’Occidente di interi Paesi suoi vicini, retti da regimi laici come Iraq e Siria, ma anche Libia, non si sia rivelato un grande affare per la propria economia, la più dinamica dell’area. Questi erano gli unici mercati evoluti della regione, nei quali si stava formando una classe media e avrebbero costituito un naturale sbocco alla fiorente economia israeliana. Inoltre, bisogna anche ricordare che la strategia di Obama verso l’Iran, non era di pace duratura ma solo di sospensione delle ostilità, per circa un decennio. Lo schema, non dichiarato al grande pubblico, ma presente in documenti riservati, era all’incirca il seguente: prima finiamo di destabilizzare la Siria e il nord Africa, Egitto, Algeria, solo dopo, per non aprire troppi fronti contemporaneamente, all’Iran dovrà toccare la stessa sorte.

L’esplosione che ha reciso giovani vite innocenti a Manchester è stata dunque oggettivamente un colpo indirizzato sulla strategia della Casa Bianca per la stabilizzazione del Medio Oriente e per spezzare i legami inconfessabili tra alcune petromonarchie del golfo e il terrorismo internazionale. Ma da parte degli Stati Uniti sembra profilarsi una svolta che consenta all’Occidente e ai Paesi arabi di archiviare decenni di errori. Una svolta che crea premesse solide anche per la riapertura di un processo di pace tra Israele e Palestina.

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