Un presidente nuovo, a Seul più che a Parigi

Il fatto che per l’Italia sia molto più importante ciò che succede in Francia che in Corea del Sud non giustifica la pressoché completa dimenticanza della politica italiana, anche della sinistra e dei Cinque Stelle, dell’esito delle elezioni di quel Paese situato in una di quelle zone calde da cui può accendersi la miccia di un nuovo conflitto globale.

Mentre tutti si sono lasciati andare a lodi infinite sul nuovo presidente francese Macron, sta passando pressoché inosservato il fatto che la Corea del Sud, il 9 maggio scorso, appena due giorni dopo il secondo turno francese, abbia eletto un presidente, Moon Jae-in, appartenente al Partito Democratico Unito, convinto pacifista e attivista per i diritti umani. Sin dal suo insediamento ha indicato davanti al parlamento un radicale cambiamento del rapporti con la Corea del Nord, annunciando la volontà di recarsi a visitarla e mostrando un approccio molto più morbido e di dialogo dei suoi predecessori nel trattare con il regime di Pyongyang.

Monsignor Hyginus Kim Hee-jung, presidente della Conferenza episcopale coreana già auspica che il nuovo presidente «diventi un grande leader che realizza la pace nella penisola coreana».

Moon è stato eletto a furor di popolo, col 40,2% in un sistema a turno unico, lasciando il suo avversario conservatore Hong Joon-pyo al 25,2%, da un paese in cui cresce l’avversione alla politica aggressiva e spericolata degli Stati Uniti, del presidente Trump, aspramente criticato dalla stampa occidentale liberal e progressista su tutto il resto ma appoggiato incondizionatamente quando si tratta di aumentare la tensione internazionale e di progettare nuove azioni di guerra.

La popolazione sud coreana ha accolto con forti proteste, gridando “No Thaad, nessuna guerra”, l’avvio nel mese scorso dell’installazione di un sistema di difesa missilistica denominato appunto “Thaad” da parte delle truppe americane presso Seongju, nel sud-est del Paese. Il sito appare infatti agli stessi sudcoreani una provocazione per alzare il livello dello scontro con la Cina, e indirettamente con la Russia, sotto il pretesto di fungere da deterrente verso le provocazioni della Corea del Nord.

La dottrina è la medesima, è quella dell’ultranazionalismo dell’establishment occidentale che mentre fa predicare ai media ad esso asserviti il superamento delle frontiere e la globalizzazione dei mercati, agisce con ogni mezzo (compresi guerra, destabilizzazione e terrorismo) per stroncare ogni diversità e per assoggettare chiunque nel mondo rivendichi un rapporto di pari dignità.

Noi – la classe politica asservita ad un tale progetto – in Europa siamo costretti a dislocare i contingenti militari nei Paesi baltici e ad imporre sanzioni commerciali alla Russia, pur in assenza di qualsiasi minaccia, anzi danneggiando le nostre esportazioni. Loro, i sudcoreani, a cercare un’escalation con il regime del dittatore Kim Jong-un anziché la ricerca di una possibile denuclearizzazione della Corea del Nord in funzione della riunificazione fra le due Coree. Ad Ovest come ad Est l’obiettivo strategico è lo stesso: accerchiare le potenze euroasiatiche e impegnare gli alleati degli Stati Uniti in sempre più rischiose provocazioni. D’ora in avanti forse però il nuovo presidente sud coreano Moon Jae-in potrebbe dare qualche dispiacere ai pianificatori di quella che papa Francesco ha definito assai propriamente la terza guerra mondiale a pezzi. Si vedrà, intanto l’inizio della nuova presidenza sudcoreana è stato come una bomba atomica di pace, rigorosamente non fattaci sapere col dovuto rilievo dai media occidentali.

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