Il declino dell’italiano

Il fatto che l’Italia sia un Paese in declino è sotto gli occhi di tutti e per molti è anche motivo di preoccupazione. Meno percepito è il fatto che anche l’italiano, come lingua scritta e parlata, sia a sua volta in declino, la qual cosa non sembra preoccupare più di tanto l’opinione pubblica. In effetti, la maggior parte di noi è troppo presa dai problemi e dalle urgenze quotidiane per occuparsi di faccende che sembrano sofismi e sottigliezze per intellettuali, ma non è così. La lingua è parte integrante di una nazione, della sua cultura, della sua memoria storica, sicché la decadenza dell’una e dell’altra sono collegate e si rispecchiano a vicenda.

Ma quali sono le cause del degrado del nostro idioma nazionale? Secondo il professor Raffaele Simone, eminente linguista dell’Università di Roma Tre, il principale imputato è lo strapotere del digitale. L’avvento delle nuove forme di comunicazione e dei loro stessi supporti ha cambiato radicalmente la percezione e produzione della lingua scritta. Dagli sms digitati sui telefonini alle incursioni sui “social” tramite PC e tablet, passando per twitter e whatsapp, la comunicazione è diventata forzosamente breve, sincopata, imperfetta, inesatta. Le esigenze di immediatezza e velocità prevaricano quelle di ponderatezza e precisione, sia nei contenuti che nella forma, anche considerando la rapidissima obsolescenza dei messaggi, destinati a essere soppiantati in tempi brevissimi, inabissati per sempre nei meandri informatici dei colossali server che immagazzinano tutta la nostra produzione in rete, enormi memorie senza cervello, che ricordano tutto senza capire nulla. Tutto si ribalta in questa colossale e amorfa realtà virtuale, facendo sì che – sostiene sempre il professor Simone – “la mediasfera vince sul reale”, per cui “condividere” un evento o un momento particolare diventa più importante che viverlo. A livello linguistico, ne deriva il paradosso per cui, proprio nel momento in cui la sua produzione è massima, a livelli mai raggiunti prima dall’umanità, la scrittura perde il suo potere alfabetizzante, crea errori e imperfezioni infinite, diventando “descolarizzante e dealfabetizzante”, sempre secondo la definizione di Simone. Il quale sottolinea che il processo è peraltro comune anche ad altre lingue, vista la globalità dei processi di digitalizzazione: in Francia si è addirittura deciso di modificare la lingua per legge, introducendo delle semplificazioni grammaticali volte a diminuire il numero di errori di ortografia commessi dalla maggioranza della popolazione, anche di livello culturale elevato, prendendo ufficialmente atto di modifiche linguistiche ormai entrate nell’uso corrente.

Mal comune mezzo gaudio? Non esattamente, perché la decadenza lessicale va ben oltre gli errori grammaticali, rischiando di inficiare sia l’efficacia comunicativa che, ancor più, la valenza evocativa della scrittura, appiattendo il suo spessore socio-culturale a mero atto di traslazione di informazioni, anzi di “info” impersonali e incolori. È quanto denuncia Alessandro Perissinotto, che della scrittura ha fatto un mestiere, ma che vive i problemi della decadenza del linguaggio anche in qualità di docente universitario. Secondo Perissinotto, la dilagante semplificazione del linguaggio non è soltanto un banale problema grammaticale, ma incide profondamente nell’ambito culturale e perfino nella percezione del vissuto: ad esempio, perdere il congiuntivo, forma coniugale negletta per eccellenza, non significa solo sbagliare a declinare un verbo, ma implica la rimozione della forma dubitativa, quindi anche del dubbio in sé, esponendoci al rischio di dare tutto per certo, atteggiamento assai rischioso in un’epoca di bufale e menzogne travestite da “post-verità” e “fatti alternativi”. Parimenti, sottolineano sia Simone che Perissinotto, il mancato o indifferente utilizzo di tutte le coniugazioni dei verbi al passato (prossimo, remoto, trapassato…) provoca l’appiattimento della linea temporale, annullando le distanze cronologiche, col rischio di un’impropria commistione di storia, cronaca, memoria e attualità.

Secondo Perissinotto, i segni del declino della lingua sono individuabili e ricorrenti, tanto che li ha classificati in un elenco in sette punti, a partire dalla tentazione della facilità, con l’illusione di semplificare ciò che per sua natura è complesso e richiede studio e fatica, valori a loro volta in decadenza. Secondariamente, una lingua che serve solo”per capirsi”, dove l’esattezza della terminologia evapora nel pressapochismo; terzo, la brevità estrema, esemplificata dai 140 caratteri massimi di twitter, dove l’immediatezza emozionale prevale sulla disamina delle questioni, fenomeno assai pericoloso visto l’utilizzo smodato da parte dei politici, che finisce per far prevalere slogan e parole d’ordine rispetto all’analisi ponderata e ad ampio raggio. Quarto punto, la perdita dell’autorialità, quando le fonti d’informazione a loro volta peccano di inesattezza e approssimazione, anche ortografica e lessicale; quinto, “la sciatteria come metodo”, che Perissinotto individua nei romanzi “scritti col pollice”, digitando sulla tastiera del telefonino un prodotto destinato al facile consumo, incurante dei refusi di battitura, tanto popolare quanto assai poco letterario, tuttavia con una diffusione così ampia da allarmare rispetto al livello intellettuale della platea degli utenti. Sesto punto, la perdita del gusto delle parole, settimo e ultimo una lingua esclusivamente funzionale, appresa a livelli basici solo per determinate funzioni. Ma tornando al sesto punto, cosa intende Perissinotto per “gusto delle parole”? Lo scrittore lo esemplifica tramite tre frasi similari: “Adelmo salì sulla sua giardinetta”, “Mario mise in moto la sua familiare”, “Kevin chiuse la portiera della sua station wagon”. In tutti e tre i casi, un uomo interagisce con la propria auto di carrozzeria allungata rispetto a una normale berlina, ma il contesto è profondamente differente: nel primo caso tendiamo a visualizzare un Adelmo in bianco e nero, un nonno o bisnonno di un’Italia contadina che va alla fiera del paese; Mario potrebbe fare capolino dalle foto nostalgiche e dai colori sbiaditi della nostra infanzia o di quella dei propri genitori, a seconda dell’età, e ci rimanda all’Italia operosa e prolifica degli anni del boom economico e delle gite domenicali fuori porta; infine Kevin appare su supporto digitale, figlio di un’Italia il cui immaginario è stato colonizzato dalle soap opera e dalla cultura economico-produttiva proveniente da oltre Atlantico, da quell’America che sempre più egemonizza un Belpaese traballante e dimentico delle proprie radici. Un’Italia in declino politico, sociale, economico e culturale, nel quale perfino l’idioma nazionale arretra e cede il passo, denotando un ulteriore elemento di decadenza che ci permettiamo di aggiungere all’elenco di Perissinotto: la supina accettazione della crescente promiscuità con parole e terminologie anglofone che, lungi dall’essere indispensabili, soppiantano i corrispettivi italiani senza alcuna ragione semantica, in ossequio a mode e vezzi, con la volontà di apparire moderni e multiculturali, ma soprattutto smart, cool, fashion e perfettamente inseriti nel pensiero e nella filosofia mainstream. Appunto. Con tanti saluti a secoli di eccellenza culturale e all’epoca d’oro in cui intellettuali come Erasmo da Rotterdam e Bacone si italianizzavano il nome per nobilitarsi.

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