“Falstaff”, ossia il ricordo del tempo che fu

Ispirata edizione dell’ultima opera di Verdi al Teatro alla Scala

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

A palcoscenico chiuso, prima che lo spettacolo inizi, il pubblico vede la facciata esterna della Casa di riposo per musicisti “Giuseppe Verdi” di Milano proiettata come su uno schermo. Poi il sipario si alza e si entra all’interno delle sue sale riprodotte fedelmente dallo scenografo Paolo Fantin e dalla costumista Carla Teti per uno spettacolo, il Falstaff di Verdi, che la regia di Damiano Michieletto vuole appunto ambientato in quel luogo che il compositore intese creare per i “vecchi artisti che non hanno avuto in vita la virtù del risparmio”. Da qui nasce l’idea di pensare al protagonista come un anziano baritono che sfoglia album di foto che ricordano la sua carriera. Una visione malinconica, che prelude a quello che di lì a poco accadrà quando Falstaff, addormentatosi sul divano, vedrà scorrere sotto i suoi occhi, come in un sogno, il meglio della sua gioventù trascorsa. Il ricordo si trasforma in riflesso onirico dei passati successi e delle gaudenti conquiste amorose di un uomo al tramonto della sua esistenza, sempre attorniato da personaggi che sembrano rievocare i suoi tempi migliori, mentre gli ospiti della Casa di riposo rappresentano la realtà in cui vive.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Insomma, un doppio piano drammaturgico, che si sviluppa parallelamente e che Michieletto, da gran maestro di regia quale è, conduce al meglio. Ne nasce una riflessione delicatamente crepuscolare sul significato della vecchiaia dinanzi alla finitezza dell’esistenza e in attesa di una morte che per burla stessa viene profilata al protagonista, nell’atto finale, come funerale, mentre tutto si sostanzia abilmente basandosi appunto sul piano della memoria onirica che per scherzo viene a rendere il profilo registico indubbiamente geniale, ma spesso non sempre chiaro nel gestire il duplice livello narrativo col quale l’opera non smarrisce il disincanto ironico e agrodolce, eppure ne limita gli effetti maliziosamente ironici e tutti in punta di penna del libretto di Arrigo Boito.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Michieletto crede fortemente in questa sua idea di spettacolo e la alimenta come meglio non si potrebbe immaginare su un palcoscenico costantemente affollato, forse fin troppo, di personaggi. Cos’è la fine della vita per tutti noi, sembra chiedersi il regista dopo aver evocato i momenti più belli del passato? È uno scherzo forse, o un’amara burla che il destino ci pone dinanzi; e immancabilmente non risparmia un protagonista che guida la fuga finale dell’opera (“Tutto nel mondo è burla”) presentando al sogno del suo passato e alla realtà del suo presente, quest’ultimo costituito dagli ospiti della casa di riposo, l’idea di una vita dinanzi alla quale, prima o poi, tutti vengono gabbati al rintocco della vecchiaia, che prelude alla morte. Uno spettacolo tanto amaro nella sua “filosofia” registica, eppure dinamico e scorrevole come non mai. Anche per chi non è malato di “Michielettite” acuta, che colpisce chi crede che il regista d’opera italiano più “alla moda” dei nostri giorni le azzecchi sempre tutte – complice una porzione di critica consenzientemente osannante, quasi per partito preso, ogni suo spettacolo – questo Falstaff appare un allestimento indubbiamente carico di significati profondamente vicini alla nostalgica e riflessiva sensibilità verdiana e all’idea che l’autore ebbe di chiudere la sua carriera salutandola con l’amaro sorriso di una commedia perfetta, che fa meditare e non solo divertire perché con essa si congedò dalle scene e, forse, anche dalla vita.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Per scelta, e non perché condizionata dallo spettacolo, la direzione di Zubin Mehta risponde all’amara meditazione  sul trascolorare del tempo suggerita dal palcoscenico rallentando i tempi, smorzando il brio e donando un tocco di riposata rilassatezza quasi cameristica agli ensemble polifonici. Capeggiata da Ambrogio Maestri, per il quale il personaggio di Falstaff è come una seconda pelle, nella quale si muove dando la sensazione di uno scavo della parola e del gesto scenico sempre pronti a comunicare completa adesione al personaggio ad onta di qualche isolata stanchezza vocale percepita alla recita della quale riferiamo, la compagnia di canto è un ingranaggio ad orologeria teatrale perfetta.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Di bel timbro tenorile ma di emissione non sempre equilibratissima il Fenton di Francesco Demuro, così come vocalmente solido e robusto il Ford di Massimo Cavalletti. Ottima la coppia dei seguaci di Falstaff, Francesco Castoro, Bardolfo, e Gabriele Sagona, Pistola. Superlativo Carlo Bosi, un Dott. Cajus che per questo ruolo è ormai, più che un punto di riferimento, un’icona da prendere a modello. Carmen Giannattasio, Alice, Yvonne Naef, Quickly, Annalisa Stroppa, Meg e Giulia Semenzato, Nannetta, formano un affiatato quartetto di comari, ma solo l’ultima offre una marcia vocale in più, sfoggiando freschezza timbrica e bel garbo nei filati.

Un gran bel Falstaff, in linea con una tradizione scaligera che ha visto rappresentata quest’opera, anche in un recente passato, sempre ai massimi livelli.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

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