“Don Carlo” di Verdi al Teatro alla Scala

Magistrale direzione di Myung-Whun Chung e cast di alto livello, ma delude lo spettacolo di Peter Stein.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Se per le opere di Verdi non ci sono più le voci di un tempo, quelle che infiammavano gli entusiasmi del pubblico puntando su vigore, volume e bellezza di suono, è pur vero che anni di pratica esecutiva novecentesca, affidata al genio di grandi direttori d’orchestra (Riccardo Muti in primis, che resta, senza far torto ad altre bacchette, il più grande “profeta” dell’esegesi esecutiva verdiana), hanno scrostato le partiture verdiane da una certa grossolanità, sia vocale che strumentale, a favore di una maggiore attenzione alla verità del dramma e della “parola scenica” voluta da una scrittura che richiede una infinitesimale sottigliezza di possibilità espressive, a scapito di un’enfasi melodrammatica depistante, talvolta portata alle conseguenze più estreme da esecuzioni passate. Il Verdi che si ascolta oggi – non in senso assoluto, ma s’intende il migliore ascoltabile in rapporto al tempo in cui viviamo – ossia quello ripulito da tali incrostazioni anti-verdiane, è figlio non tanto del rigore toscaniniano bensì di un rispetto della partitura che ha rivisto i canoni esecutivi commisurandoli saggiamente alle caratteristiche dei cantanti disponibili sul mercato, così che stile, gusto e modalità di approccio alla prassi esecutiva sono assai mutati.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Premessa necessaria prima di addentrarsi a parlare dell’edizione di Don Carlo, proposta al Teatro alla Scala nella versione in cinque atti, che ha confermato quanto suddetto all’ascolto della magnifica direzione di Myung-Whun Chung. Il direttore sudcoreano, già apprezzato alla Fenice di Venezia in un indimenticato Simon Boccanegra che gli valse il “Premio Abbiati” dell’Associazione Nazionale Critici Musicali, è salito sul podio dell’Orchestra scaligera, davvero in forma smagliante, così come lo è stato il Coro, magistralmente diretto da Bruno Casoni, ed ha regalato una concertazione di raro equilibrio e sensibilità; sempre accurata nella scorrevolezza teatrale e nel gusto per il dettaglio strumentale in funzione sinfonica, ma anche con quell’attenzione al palcoscenico che l’ha visto privilegiare le tonalità liriche e sfumate dinanzi a voci di tonnellaggio medio come quelle pur eccellenti selezionate per l’occasione. Ne è nato un Verdi magistrale per intensità drammatica e finezza espressiva, quasi trasfigurato da una bacchetta tanto raffinata quanto concreta nel bilanciare l’anelito all’amore inappagato con gli ideali di libertà dinanzi allo scuro risvolto politico che regola, nel rapporto fra trono e altare, le ragioni di un dramma che schiaccia i personaggi e li isola in una solitudine illuminata da Chung di una luce tersa ma concretamente legata ad un “destino” che condiziona l’agire dell’uomo dinanzi all’immancabile sofferenza dell’esistenza. Un Don Carlo che è un capolavoro di sintesi e di perfetta attenzione, come si diceva, alle possibilità di un palcoscenico dove si è mossa una compagnia di canto di alto prestigio, fra le migliori certo ascoltabili oggi.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Michele Pertusi, che ha sostituito nei panni di Filippo II Ferruccio Furlanetto alla recita alla quale abbiamo assistito, è la cartina al tornasole di una saggezza interpretativa che lo vede delineare un monarca avvinto da un’umanissima introspezione dolorosa che gronda malinconia nella voce morbida e sempre attenta alla parola. Certo, come si era accennato su queste colonne in occasione del suo debutto nel ruolo al Teatro Regio di Parma per il Festival Verdi, il volume contenuto della voce gli impedisce, nel duetto con Posa e nella scena dell’Autodafé, di sfoggiare la protervia regale del monarca spagnolo. Ma quando lo si ascolta intonare “Ella giammai m’amò” e ci si sofferma sull’intonazione dell’ultimo “No, quel cor chiuso è a me”, si comprende tutta la sofferenza dell’uomo ripiegato su se stesso dinanzi alla sconfitta degli affetti, specchio di una commossa solitudine che si può affermare autenticamente verdiana. 

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Nel pieno fulgore delle sue possibilità vocali è anche Francesco Meli, che per la prima volta veste i panni di Don Carlo. Risolve tutte le insidie di una parte tanto complessa con un fraseggio miracolosamente pensato e affidato ad uno strumento vocale luminoso, chiaro nella dizione e così ben proiettato da abbattere tutti i dubbi che in passato si sono avuti quando si pensava che un repertorio più spinto fosse dannoso alla sua voce. Grazie ad un controllo tecnico invidiabile e ad un uso suggestivo della mezza voce e del canto sfumato, gli si perdona qualche lieve tensione in acuto che certo non va a scapito di un’interpretazione già da inserire fra quelle di riferimento per questo ruolo.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Simone Piazzola delude le attese. La voce è morbida, il legato magistrale, i fiati addirittura portentosi nella grande scena della morte del Marchese di Posa. Canta insomma benissimo, ma la voce ha scarso accento, poca proiezione e il personaggio appare come spaesato sulla scena, in difficoltà nel cogliere, insieme alla nobiltà, anche le sue utopie di “eversivo” campione di giustizia e libertà in un mondo dominato dai condizionamenti del potere dell’Inquisizione. Una prova interlocutoria, che nulla toglie al valore di uno dei migliori giovani baritoni italiani.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Sul medesimo versante si muove anche la prova di Krassimira Stoyanova, Elisabetta irreprensibile sul piano vocale, anche lei con pochi accenti drammatici, necessari soprattutto alla grande aria del quinto atto, ma così raffinata nelle pieghe di un canto lirico sfumato e delicato da farsi apprezzare per quell’artista di rango internazionale quale ha confermato di essere in questa occasione.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Di sicuro impatto l’Eboli di Ekaterina Semenchuk, mai sopra le righe, come spesso capita di sentire in questo ruolo, equilibrata nell’emissione e ben in linea con la visione musicale di Chung.

Eric Halfvarson è un Grande Inquisitore troppo esteriore, sia vocalmente che nel gesto scenico, così da snaturare la composta autorevolezza che dovrebbe caratterizzare una figura che detiene il controllo del potere religioso.

La locandina degli interpreti è completata dal Tebaldo di Theresa Zisser e dagli Allievi della Accademia della Scala: Martin Summer, Un frate, Céline Mellon, Una voce dal cielo, Azer Zada, Il Conte di Lerma e Un araldo reale e dai sei deputati fiamminghi, Gustavo Castillo, Rocco Cavalluzzi, Dongho Kim, Victor Sporyshev, Paolo Ingrasciotta e Chen Lingjie, quest’ultimo Allievo del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano.

Credit Brescia/Amisano Teatro alla Scala

Resta de riferire dello spettacolo, davvero brutto, che Peter Stein firmò per il Festival di Salisburgo. Uno allestimento, con scene di Ferdinand Woegerbauer e costumi Anna Maria Heinreich, che da un lato sembrerebbe guardare alla tradizione, seppur stilizzata, dall’altro a un figurativismo storico confuso e così ricco d’incongruenze da apparire addirittura stravagante. Stupisce che tali deludenti risultati arrivino da un regista di gran nome come lui, ma già il discutibile allestimento di Aida, sempre alla Scala, aveva lasciato un ricordo non certo memorabile. Questo di Don Carlo presenta distrazioni ben più gravi, sulle quali volentieri si sorvola ribadendo, piuttosto, il valore musicale di un’esecuzione destinata, per merito di Chung, ad essere ricordata come modello esecutivo di un Verdi “rinnovato”, liberato dai suoi più scontati cliché esecutivi.

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