Condanna Onu a Israele: gli Usa, per la prima volta, non mettono il veto

A pochi giorni dalla fine del mandato, l’Amministrazione Obama è riuscita a dare ancora un ultimo segnale forte, anche se virtualmente inutile. Con la storica astensione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, gli Stati Uniti hanno permesso che venisse approvata una risoluzione di condanna nei confronti di Israele, relativa agli insediamenti abusivi di colonie a Gerusalemme est e nei territori della Cisgiordania. Si tratta senz’ombra di dubbio di un fatto epocale, mai verificatosi prima negli otto anni della presidenza Obama che, al pari delle precedenti Amministrazioni Usa, aveva sempre esercitato il diritto di veto per bloccare qualunque iniziativa della comunità internazionale che potesse anche solo infastidire Israele. Tuttavia, il premier israeliano Benyamin Netanyahu non aveva mancato di criticare apertamente e continuamente il presidente Obama perché, al contrario dei suoi predecessori, non sempre aveva sostenuto in maniera acritica e incondizionata le politiche di Tel Aviv, mettendo anzi in atto alcune aperture diplomatiche verso coloro che Israele considera “nemici”, in primis l’accordo sul nucleare raggiunto con l’Iran.

Questa mossa a sorpresa, ma neanche troppo, del presidente uscente che, prima di lasciare la Casa Bianca, ha voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa nei confronti di coloro che spesso hanno avvelenato il suo mandato, ha messo in luce con evidenza alcune cose che era già possibile intravedere in filigrana, relativamente ai protagonisti della vicenda. Vediamole punto per punto.

In primo luogo, ancora una volta il “democratico” Israele si mostra per ciò che è realmente: uno stato confessionale, né più né meno di quelli che millanta di voler contrastare nello scacchiere del Vicino Oriente, dove la religione è indissolubilmente commista alle faccende di Stato, venate da un crescente sionismo che rende sempre più palesi le reali intenzioni di Tel Aviv. Non c’è nessuna volontà da parte di Israele di riconoscere i diritti dei palestinesi, men che meno quello a un loro Stato nazionale: l’intenzione, nemmeno troppo nascosta per chi volesse vederla, è sempre stata quella di erodere, in maniera lenta ma costante e inarrestabile, ogni lembo di terra al popolo di Palestina, con la politica delle “colonie”, veri e propri insediamenti urbani abusivi incistati in un territorio che, nominalmente, le Nazioni Unite avevano assegnato ai palestinesi. I quali si trovano espropriati e circondati da un progressivo assedio che lentamente soffoca ogni loro rivendicazione, in genere ignorata dalla comunità internazionale anche e soprattutto a causa dell’appoggio finora fornito dagli Usa a Israele. Al massimo, Tel Aviv prevedeva di ammassare i palestinesi nel ghetto di Gaza, una striscia di terra schiacciata contro un Mediterraneo pattugliato dalle navi israeliane e periodicamente sottoposto a bombardamenti scatenati da pretesti vari, spesso come “rappresaglia” all’uso di razzi Qassam, ordigni artigianali che alcune frange estremiste palestinesi si ostinano a lanciare verso il territorio israeliano, ottenendo l’unico effetto di legittimare le aggressioni dell’esercito con la stella di David.

Sul lato opposto, i palestinesi hanno accolto con soddisfazione la svolta degli Stati Uniti. Non sappiamo se l’abbiano considerato una sorta di regalo di Natale, di certo è stato una piacevole sorpresa, dopo tante speranze frustrate. È il segnale, dirimente anche se non decisivo, che è possibile impostare un percorso che porti all’agognata soluzione dei due Stati per due Popoli, esattamente ciò che Israele, ormai palesemente, non vuole. Si tratta in realtà di un qualcosa di virtuale, perché il documento dell’Onu è solo una “raccomandazione”, e non prevede sanzioni in caso di inadempienza da parte di Israele, che infatti ha già rabbiosamente annunciato di non tenere in nessun conto l’opinione espressa a nome della comunità internazionale. Un atteggiamento arrogante, che difficilmente sarebbe permesso ad altri Stati, figlio dell’impunità di cui Israele ha sempre goduto grazie all’indiscriminato appoggio Usa e strumentalizzando in modo cinico e consapevole l’enorme senso di colpa dell’Occidente nei confronti degli Ebrei, con la volutamente ambigua sovrapposizione di due entità, la religione ebraica e le politiche di Tel Aviv, che coincidono o dovrebbero coincidere solo in parte. Un provvedimento dunque che di fatto lascia il tempo che trova, nonostante il forte segno di discontinuità con il passato.

Un passato che rischia però di ritrovare continuità nel futuro, come mostra l’atteggiamento di un altro dei protagonisti della vicenda. Il futuro presidente Usa Donald Trump, che evidentemente ha già infilato il piede nella porta della Casa Bianca e ritiene di poter fare sentire la sua voce anzitempo, è intervenuto in maniera istituzionalmente discutibile sulla faccenda, calpestando l’antica consuetudine che gli Stati Uniti debbano avere “un solo Presidente alla volta in carica”. Il neo eletto Trump ha immediatamente affiancato Netanyahu nell’azione di pressing nei confronti del governo egiziano che, insieme ad altri, aveva presentato la risoluzione, ricordando i generosi contributi che gli Usa assicurano all’esercito del Cairo. Il generale Al Sisi, che non ha mai nutrito gran simpatia per le politiche mediorientali di Obama, non si è fatto pregare troppo per sfilarsi, ma gli altri proponenti hanno tirato dritto e, nonostante le altre manovre di Trump e Netanyahu in sede Onu, la risoluzione è stata presentata e approvata.

Tuttavia l’episodio è l’ennesima conferma delle intenzioni della presidenza Trump che, nonostante gli auspici di alcuni, si rivela sempre più in linea con le inquietanti derive della campagna elettorale. Non solo il magnate Trump intende favorire i colleghi miliardari petrolieri, rinnegando l’accordo sul clima siglato a Parigi dagli Stati Uniti, che per la prima volta si erano impegnati ad affiancare la comunità internazionale nella lotta al riscaldamento globale. Non solo ha sibilato la possibilità di stoppare il fragile riavvicinamento con Cuba, faticosamente avviato dopo decenni di ottuse incomprensioni. Ora ha anche lasciato intendere di voler mettere una pietra tombale sul processo di pace israelo-palestinese, sposando in toto le tesi dei primi e schiacciando le legittime aspettative di questi ultimi, un ottimo sistema per azzerare il dialogo, legittimare gli estremisti e porre le basi per un ritorno all’uso della forza e dei metodi terroristici. Senza contare l’atteggiamento nei confronti dell’Iran, esemplificato dalla nomina a segretario alla Difesa del generale in pensione James Mattis. Questo ex Marine noto fra i suoi commilitoni col tranquillizzante nomignolo di “cane pazzo” considera tuttora il regime di Teheran come una grave minaccia per gli Usa e, insieme a Trump, minaccia di far naufragare l’accordo sul nucleare siglato con grande sforzo diplomatico con l’Iran. Gli Usa di Trump prospettano un riavvicinamento alla Russia di Putin, che a sua volta sostiene l’Iran, ma evidentemente la diplomazia non è matematica e non esiste la proprietà transitiva dell’alleanza.

L’ultima considerazione la riserviamo per la presidenza Obama, che solo in piccola parte ha soddisfatto le aspettative e speranze suscitate dall’elezione del primo presidente afroamericano alla Casa Bianca. La politica estera, balbettante, ambigua e di scarsa efficacia, è certo fra le note più dolenti di questa amministrazione. Eppure proprio qui si sono avuti quei lampi di luce –Cuba, Iran, oggi la Palestina- che, insieme all’introduzione della cosiddetta Obamacare, embrione di un sistema sanitario pubblico, e alla pur parziale svolta ecologica culminata con l’accordo di Parigi, rappresentano i punti salienti del doppio mandato che va a concludersi. Risultati che rischiano di essere spazzati via nel giro di pochi mesi da un individuo inquietante e arrogante, arrivato alla guida della nazione più potente del mondo grazie a un voto dettato dalla frustrazione e dal sentimento di rivalsa di una classe media che ha voltato le spalle a una mediocre Hillary Clinton, vista non ha torto come garante dell’establishment, per consegnarsi a un populista che, semplicemente, è membro di quello stesso establishment che a parole sostiene di volerlo contrastare. Così, quel poco di continuità obamiana che la Clinton avrebbe potuto portare avanti, verrà sostituito da un qualcosa che, se il buongiorno si vede dal mattino, non lascia prevedere nulla di buono per l’anno nuovo che incombe e quelli a venire. Ma il periodo festivo ci impone di evitare ulteriori previsioni fosche, per cui ci limitiamo ad auspicare, senza troppa convinzione, che i fatti smentiscano le nostre inquietudini.

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