Il vino nuovo della democrazia

Il referendum costituzionale è stata una grande prova di democrazia. Vi è una risorgente voglia di partecipazione e di esercizio della sovranità. I cittadini sono stufi di assistere da spettatori a decisioni importanti prese, con direttive, trattati internazionali (come il Ttip), risoluzioni, da tecnocrazie che rispondono solo agli interessi di quella supercasta globalista dell’uno per cento della popolazione che detiene oltre la metà della ricchezza, e che perseguono una agenda non dichiarata pubblicamente e non smascherata dai media asserviti, ma ben percepibile nei suoi risultati di aumento delle disuguaglianze, di impoverimento diffuso, di creazione di caos e di guerre. In tutto l’Occidente la classe media in difficoltà, che costituisce la maggioranza della popolazione, è divenuta consapevole di poter fermare una tale deriva elitaria della democrazia, con lo strumento del voto.

Questa credo sia la lezione da trarre dal referendum. Una lezione di sostanza, non di tecnicismi istituzionali ed elettorali. Negli ultimi vent’anni in Italia abbiamo assistito al paradosso per cui il passaggio al maggioritario ha distrutto il ferreo bipolarismo che esisteva nella cosiddetta prima repubblica, anche se privato, da ragioni di politica internazionale (il fattore K), della possibilità di alternanza. La crisi del bipolarismo ha riguardato l’intera Europa e pure gli Stati Uniti (perché il fenomeno Trump è qualcosa che non si inquadra nel bipartitismo tra Democratici e Repubblicani, e spiazzerà molti profeti di sventura). Il bipolarismo è stato sostituito quasi ovunque da un assetto tripolare o multipolare per la semplice ragione che era divenuto un sistema politico capace di produrre solo l’alternanza fra gli uguali, anziché fra progetti politici alternativi. Capace di far vincere sempre gli stessi interessi delle élites transnazionali e di assecondare i loro progetti di svincolamento del capitale da obblighi giuridici e sociali, di erosione di quote crescenti di sovranità popolare.

Abbiamo di fronte una situazione nuova e molto interessante: la domanda di cambiamento, uscita largamente vincente dalle urne referendarie, ha come protagonisti i ceti lavoratori e la classe media impoverita, le periferie, i soggetti deboli e gli esclusi. Basta dare un’occhiata a come hanno votato le zone del Paese ed i quartieri delle città per rendersene conto (nei rioni più esclusivi il Sì ha stravinto). Dai succitati soggetti che appartengono prevalentemente a quei due terzi della popolazione che sente gli effetti della crisi, al di là delle immancabili becere speculazioni della destra, viene innanzitutto una grande domanda di maggiore giustizia sociale, di equità, di solidarietà. Il referendum ci ha detto che il vento del cambiamento spira forte anche in Italia. Ciò deve far riflettere in particolare quanti intendono rilanciare le radici popolari e le grandi idealità delle culture riformatrici, comprese quelle di matrice cattolico democratica, su una iniziativa politica comune da mettere in campo, anche in considerazione delle prossime elezioni politiche. Il vino nuovo ha bisogno di otri nuove.

L’otre vecchia del riformismo, il Pd, appare destinata ad essere sempre più identificata dall’elettorato popolare come l’ultimo baluardo dell’establishment, delle tecnocrazie, della prepotenza tedesca della Merkel, che hanno impoverito il Paese e gravemente screditato il progetto di integrazione europea. Lo dico con rispetto, amicizia e franchezza a quei tanti militanti ed amministratori locali che con passione e competenza sono a contatto quotidianamente con la gente: purtroppo il profilo nazionale che ha assunto il Pd è divenuto molto diverso da quanto pensavamo all’inizio e probabilmente non più correggibile.

Lo ribadisce la scelta del mite conte Gentiloni Silveri a presidente del Consiglio. Con tale opzione il Pd si conferma all’interno e sul piano internazionale come il partito difensore degli interessi e della visione del mondo di quelle élites compromesse verso cui si sta rivolgendo lo scontento popolare. Anziché una soluzione istituzionale, un esecutivo di scopo per la legge elettorale e per portare il Paese alle urne nel minor tempo possibile, si è scelta la strada della più piena continuità con il governo Renzi che è stato sfiduciato direttamente dal corpo elettorale. Una scelta di arroccamento rischiosa per chi la pratica e soprattutto che potrebbe risultare assai indigesta ad un corpo elettorale che chiede legittimamente di potersi esprimersi sulle future scelte del Paese, mosso da altre priorità che non sono i vertici internazionali o il G7, ma la speranza di trovare una via d’uscita ad una crisi provocata principalmente da politiche sbagliate.

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