Referendum: tra improvvide personalizzazioni e interessi dei poteri forti

Il prossimo 4 dicembre gli italiani saranno chiamati a un appuntamento cruciale con le urne, il referendum col quale dovranno esprimere il loro parere sulla Riforma Costituzionale presentata dal Governo. Un voto fondamentale, perché la Costituzione non è una legge qualsiasi, è la madre di tutte le leggi, l’impianto destinato a regolare il funzionamento dello Stato nei decenni a venire. E la riforma in oggetto va a modificare ben 47 articoli, circa un terzo, della nostra Carta fondamentale. Un intervento rilevante sui nostri meccanismi istituzionali, che dovrebbe far registrare la più ampia condivisione possibile fra le forze politiche rappresentative del corpo elettorale. Invece, sta accadendo esattamente l’opposto, complice anche la natura intrinsecamente manichea dell’istituto referendario. La campagna elettorale è fortemente drammatizzata e ha fatto registrare toni e atteggiamenti parecchio sopra le righe, che nulla hanno a che vedere con l’alto profilo istituzionale che la materia richiederebbe e che allontanano il dibattito dal merito della riforma, spostandolo impropriamente su questioni politiche contingenti e di breve respiro, che mal si adattano a una materia per sua natura destinata al lungo periodo.

Colpa della scarsa levatura che caratterizza in generale la nostra classe politica, dalla quale emergono leader che hanno più le caratteristiche del capopopolo che dello statista. Tra questi, purtroppo non fa eccezione il Premier Renzi,  che per primo ha personalizzato la riforma, cercando di trasformare la relativa consultazione referendaria in una sorta di approvazione plebiscitaria del proprio operato e di quello di un esecutivo creato a sua immagine e somiglianza. Una mossa improvvida, derivante dall’entusiasmo suscitato dal successo nelle elezioni europee, dove il PD aveva raccolto un quasi irripetibile 40%. Giudicando eccezionale un risultato che era un’eccezione, Renzi ha legato le sue sorti politiche all’esito del referendum, salvo ingranare una precipitosa retromarcia quando le proiezioni hanno fatto balenare la possibilità di un’inattesa sconfitta. Segno di una vocazione opportunistica che ragiona nell’ottica di vantaggi di breve periodo e non si fa scrupolo di rivoltare le carte in tavola, doti molto apprezzate nell’attuale panorama politico, ma ben lontane dalla lungimiranza e dalla coerenza dei Padri costituenti. Per recuperare terreno, il Premier ha scelto di posticipare quanto più possibile la consultazione, cercando anche di slegare le proprie sorti personali da quelle della Riforma. Un atteggiamento ambiguo, che giustifica una certa diffidenza nei confronti del suo operato, perché non si può dimenticare che le idee camminano sulle gambe delle persone. E che quando si tratta di Costituzione le implicazioni sono rilevanti sotto tutti gli aspetti, istituzionale, politico, sociale ed economico. Per cui il metodo diventa anche merito e la forma significa sostanza.

Per capire cosa ciò significhi occorre fare un passo indietro, al 2 giugno 1946, quando nella prime elezioni libere dopo il ventennio fascista i cittadini italiani elessero l’Assemblea Costituente, col compito principale di redigere la Carta costituzionale tuttora vigente. Un documento redatto da un organo istituzionale espressione del voto popolare, eletto proprio con quello scopo, i cui membri lavorarono per una sintesi inclusiva che tenesse conto delle varie sensibilità, riuscendo a ricucire un’Italia lacerata proprio attorno a quella Carta dei diritti in cui tutti si riconoscevano. Oggi, la situazione è diametralmente opposta: un Parlamento di fatto delegittimato, eletto con una legge elettorale (dall’evocativo nome di Porcellum) dichiarata in seguito incostituzionale, ha accordato la fiducia a un Primo ministro non eletto affatto, arrivato al potere con una manovra di palazzo che ha allontanato il suo predecessore, che presiede un Governo espressione di una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne. Uno scenario stridente dal punto di vista istituzionale, non adeguato a riscrivere la Costituzione frutto della Resistenza, che ha prodotto un’ampia e variegata opposizione, lacerando il Paese e rischiando di lasciarlo diviso, qualunque sia l’esito referendario.

Non per nulla l’Anpi, l’associazione dei partigiani, si è espressa per il “No” a questa riforma, che rimaneggia profondamente la Costituzione che essi hanno contribuito a scrivere, letteralmente, col sangue, nel corso della guerra di liberazione dal nazifascismo. Come pure per il “No” si sono schierati ampi settori della società civile, dalla Fiom al Gruppo Abele, nonché un nutrito gruppo di costituzionalisti, preoccupati dall’impianto disomogeneo e farraginoso del nuovo testo, che a loro dire creerebbe non pochi problemi al funzionamento della macchina legislativa e amministrativa. Guardando questo schieramento, risultano pretestuose, infondate e persino puerili le accuse del Premier, che indica negli oppositori i rappresentanti di una “casta” timorosa di perdere le proprie “poltrone”.

È invece piuttosto agevole riscontrare la presenza dell’establishment (qualcuno direbbe “poteri forti”) nel fronte del “Sì”: multinazionali, banche, gerarchie dell’UE e Confindustria tifano apertamente per la riforma. E ormai molti hanno capito che gli interessi di queste entità sono ben diversi, spesso in aperto contrasto con quelli dei cittadini. Altro motivo per diffidare di una riforma che appare eterodiretta, quasi dettata da lobby affaristiche che sembrano considerare la democrazia più che altro un intralcio. Non si tratta di dietrologia o complottismo, i decisori mondiali queste cose le mettono nero su bianco, come nel documento redatto dalla banca d’affari JP Morgan e reso pubblico nel maggio 2013, dove gli alfieri del neoliberismo lamentano che «I problemi economici dell’Europa sono dovuti al fatto che i sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste […] I sistemi politici e costituzionali del Sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo, il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi».

L’attuale (contro)riforma va in direzione dei desiderata degli affaristi: l’Esecutivo necessiterà della fiducia di una sola Camera, dove un premio elettorale blinderà la maggioranza grazie a  un numero di seggi superiore alla rappresentanza reale, mentre la ridotta possibilità di esprimere preferenze favorirà la presenza di “nominati” fedeli al Premier. Allo stesso tempo, con la modifica del Titolo V, il Governo recupererà molte funzioni in precedenza devolute alle Regioni, quando in una precedente riforma si era seguita la moda “federalista” per non lasciarla appannaggio esclusivo della Lega Nord. È la stessa tendenza di provvedimenti quali la “legge obbiettivo” e lo “sblocca Italia”, che consentono di asfaltare le istanze delle amministrazioni locali in nome del “superiore interesse nazionale”. Lo sa bene il Governatore pugliese Emiliano, schierato fin da subito per il “No”, che rischia di veder sbucare sulla splendida spiaggia di San Foca il gasdotto proveniente dall’Azerbaigian, i cui tubi proseguiranno poi per decine di chilometri fra gli uliveti, sradicando le piante secolari che creano intralcio, per arrivare a collegarsi con la rete nazionale a Brindisi, dove le autorità locali avevano invano chiesto di farlo direttamente approdare. Se lo ricordino, i fautori del “Sì”, quando davanti a casa loro, in nome del superiore interesse nazionale, verrà posizionata l’ennesima discarica, o magari una centrale a carbone, visto che la politica energetica ritorna esclusivamente in capo all’Esecutivo. Uno scenario ideale per i lobbisti, che dovranno fare pressione su un numero ben inferiore di soggetti, per far passare come “strategici” progetti che in realtà costituiscono un vantaggio solo per i proponenti. Si ricordino anche questo, coloro che poi lamentano gli sprechi assurdi delle numerose “opere inutili” di cui è costellata l’Italia, che naturalmente erano state presentate come fondamentali per “stimolare l’economia”.

Da ultimo, la millantata abolizione del Senato che, seppur modificato e depotenziato, continua a esistere, mentre viene abolito il nostro diritto di eleggere i senatori, nominati secondo meccanismi non chiari, visto che occorrerà stabilirli con legge apposita, al momento non resa nota. Secondo la nuova, farraginosa enunciazione dell’art. 70, che forzatamente sintetizziamo, la competenza del Senato riguarda “le leggi di revisione della Costituzione[…] le leggi che determinano[…]le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane[…]l’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”. Potenzialmente, un ambito vastissimo, che consente al Senato di intervenire su quasi tutto, o perlomeno di provarci. Per questo, lo stesso articolo prevede che “I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza”. E se non si intendono? Sorge un conflitto di attribuzione che blocca il processo legislativo sul nascere. Lo scenario non è così improbabile: la situazione attuale vede una forte preponderanza del Pd nelle amministrazioni locali, delle quali il futuro Senato sarebbe espressione. Se alle elezioni politiche prevalessero i 5 Stelle e conquistassero la Camera, i due rami del Parlamento sarebbero appannaggio di forze politiche opposte, e con questo meccanismo il conflitto politico verrebbe ribaltato sul piano istituzionale, paralizzando proprio quell’iter legislativo che la riforma pretenderebbe di accelerare.

Anche se in realtà il problema non è sveltire il processo di promulgazione delle leggi: è dimostrato che, nonostante le lungaggini dell’attuale “bicameralismo perfetto” l’Italia produce un numero di provvedimenti fra i più elevati al mondo. Il problema non è dunque fare le leggi più in fretta, semmai quello di scriverle meglio e farle rispettare, ma questo dipende dalle capacità della classe politica, non dalla Costituzione. E prima di modificarla, la nostra Carta fondamentale andrebbe attuata, a partire dall’Art. 1, che dice che siamo una Repubblica “fondata sul lavoro”. Possiamo affermare di averlo fatto, in un Paese dove la disoccupazione fra i giovani veleggia intorno al 40%? No, decisamente “No”.

 

 

 

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