Una occasione da non sciupare per un nuovo riformismo

Ciò che è successo nella notte elettorale degli Stati Uniti ha un valore simbolico che va oltre la posta in gioco del prossimo mandato alla Casa Bianca. Si tratta di un evento paragonabile al crollo del muro di Berlino. È veramente finita un’epoca, l’epoca dell’unilateralismo e del pensiero unico neoliberista. L’epoca in cui i grandi poteri economici e finanziari occidentali hanno imposto i loro interessi come misura di tutte le cose.

Questa loro supremazia si è affermata sulle culture popolari e riformiste ed ha fatto perdere credibilità al campo della sinistra nei confronti dei ceti lavoratori e della classe media. Ci siamo adattati ad uno stato di sudditanza culturale che ci ha reso pressoché acritici sulle cose importanti. In questi anni ciò che conveniva alla superclasse dell’1% più ricca è stato presentato come “riforme” in campo economico e sociale, come intervento umanitario e per estendere la democrazia in campo internazionale, anche se in realtà si trattava di riduzione dei diritti dei lavoratori, commercio internazionale al ribasso su regole e tutele, tagli spietati allo stato sociale, privatizzazione degli assets più redditizi per le casse dello stato, ritiro dello stato dall’economia e rinuncia ad una politica monetaria pubblica, guerre cruente di aggressione che hanno mandato in frantumi regioni a noi vicine, dalla Libia al Medio Oriente, all’Ucraina.

Chi osava criticare questo rigido schema veniva considerato politicamente scorretto. Ebbene, la sete di giustizia dei più deboli, dei meno acculturati, degli umili, delle periferie immense dell’America, delle vittime della crisi e delle disumane politiche neoliberiste, ha trovato una rappresentanza, o forse anche solo uno sfogo (il tempo ce lo dirà). Ma, questo è il punto, l’interlocutore di tali istanze, ha poco o nulla da spartire con le tradizionali culture riformatrici.

Non resta che sperare che Donald Trump non si riveli da presidente quel mostro che una stampa a lui pregiudizialmente ostile ha dipinto, un’immagine peraltro che lui stesso ha contribuito a creare anche con certe sue inqualificabili sparate elettoralistiche, ma le sue categorie sono profondamente di destra. Si vedrà. Intanto nel suo primo discorso da presidente eletto ha posto come priorità un grande piano di investimenti per la ricostruzione delle infrastrutture interne agli Usa (strade, scuole, ospedali) sacrificate dai precedenti presidenti, sia repubblicani che democratici, per finanziare le guerre dei neoconservatori, e una chiara volontà di distensione da parte degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali. Non esattamente il programma di un pazzo o di un dittatore.

Con Trump presidente si profila una dura prova per le culture riformatrici, e segnatamente per quella cattolico-democratica. Quest’ultima loda a parole il magistero sociale di Papa Francesco, che ha rotto gli schemi della cultura dominante fondata sull’idolatria del denaro, ma i cattolici impegnati nel sociale faticano a tradurlo in categorie politiche ed a liberarsi da un conformismo reso ancor più imbarazzante dall’esito delle elezioni americane. Tutti i democratici e i progressisti si devono preparare ad incassare insieme un grande colpo: quello di veder fare, a modo suo, da un movimento populista ciò che avrebbe dovuto fare la sinistra. Perché è dal movimento populista guidato dal nuovo presidente degli Stati Uniti d’America che partirà la messa in discussione dei trattati commerciali internazionali (Nafta, Tpp, Ttip…), la proposta di barriere doganali a tutela della dignità e della qualità del lavoro, a sostegno della ripresa della domanda interna; che partirà il varo di un grande piano di intervento pubblico in economia, stornando le risorse dalle guerre in giro per il mondo alle opere pubbliche a favore del popolo americano. Per quanto paradossale possa apparire, il miliardario newyorchese si pone oggi come il principale sfidante del potere incontrastato della finanza speculativa sulla politica. La vittoria di Trump significa, inoltre, la sconfitta dei piani dei neoconservatori, il movimento che sulla scia dell’11 settembre 2001 ha spinto l’America in guerre folli (Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria) e ad una strategia, pericolosissima per noi europei, di provocazione verso la Russia.

Tutti capitoli su cui i progressisti di vario genere si sono dimostrati distratti, assenti o addirittura impegnati sui fronti opposti agli interessi delle categorie sociali che dicevano di rappresentare ed ai valori che dicevano di professare.

Ce n’è abbastanza per il campo riformatore, oggi sonoramente sconfitto, non tanto nei numeri ma nelle idee e nella credibilità, per far diventare il giorno della vittoria di Trump una grande occasione storica di ricostruzione di una cultura politica solidarista e di recupero di una capacità di rappresentanza popolare delle vittime della crisi, che in Italia come negli Usa, sono la maggioranza della popolazione.

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