“Olivo e Pasquale” apre il Festival Donizetti di Bergamo

Foto Rota / Fondazione Donizetti.

La prima ripresa in tempi moderni di una rarità, proposta in una versione fino ad oggi sconosciuta.

Il Festival Donizetti si è aperto all’insegna della prima ripresa in tempi moderni di Olivo e Pasquale di Donizetti. I più fedeli estimatori del compositore bergamasco già conoscevano questo melodramma giocoso nella versione originale andata in scena a Roma il 7 gennaio 1827 al Teatro Valle, la medesima proposta nel 1980 all’Opera Barga e della quale esiste un’incisione discografica. Donizetti revisionò poi la partitura per Napoli, dove il 1° settembre del medesimo anno si ascoltò con modifiche sostanzialmente ascrivibili all’utilizzo dei dialoghi parlati anziché i recitatitivi secchi, alla trasformazione del ruolo affidato all’amoroso da mezzosoprano en travesti a tenore e all’impiego del dialetto napoletano per Pasquale, uno dei due buffi che danno il titolo all’opera. Oggi questa versione, ignota a tutti, viene rappresentata in un allestimento che conferma come a Bergamo il genius loci può essere una risorsa in grado di attirare interesse culturale e turismo attorno al lavoro di un Festival che ha l’avvallo della Fondazione Donizetti (che si è fatta carico della revisione di Olivo e Pasquale sui materiali coevi a cura di Maria Chiara Bertieri) e conta su una programmazione che vede fortemente impegnato il direttore artistico, Francesco Micheli, sul versante della divulgazione donizettiana che coinvolge due fronti: quello più tradizionale, della riscoperta di titoli dimenticati o poco eseguiti all’interno del vasto catalogo operistico donizettiano, proposti in allestimenti capaci di attirare l’attenzione di un pubblico di appassionati provenienti da diverse parti del mondo, e quello dell’apertura ad un nuovo pubblico sempre più largo e variegato, con particolare attenzione alla sfera dei giovani.

Olivo e Pasquale si ascolta con piacere. È il tipico prodotto compositivo di un primo Donizetti in equilibrio fra citazioni rossiniane (nel finale del primo atto e nel rondò finale della primadonna) e una comicità il cui stile, scatenato nei ritmi giocosi, strizza l’occhio ai toni della farsa (vedasi il duetto dei due bassi buffi ad apertura del secondo atto) ma si colora di tinte malinconiche che rasentano l’autocitazione (la stretta finale del duetto del secondo atto fra soprano e tenore richiama quello di Linda di Chamounix). La trama del libretto di Jacopo Ferretti, che mette in scena due buffi, Olivo e Pasquale – fratelli dai caratteri tanto diversi, il primo iperattivo e iracondo, burbero padre di Isabella; il secondo, Pasquale, flemmatico e pacioso zio buono che comprende l’amore che lega la nipote all’umile Camillo nonostante l’opposizione del sempre irascibile Olivo, che vorrebbe far maritare la figlia al più facoltoso Le Bross – contiene tutti gli ingredienti tipici alla vena comica del teatro musicale donizettiano, fresca ma anche capace di abbandoni sentimentali.

A Bergamo lo spettacolo, proposto nel bellissimo Teatro Sociale, situato nella città alta, è opera della compagnia operAlchemica, dei registi Ugo Giacomazzi e Luigi Di Gangi, che montano un allestimento di animazione a ciclo perpetuo, con scenografie formate da coloratissime quinte in stile décuopage dalle riminiscenze luzzatiane, all’interno delle quali la regia impegna tantissimo gli interpreti, evitando che la noia prenda piede. Se tutto funziona a dovere è ovviamente per merito di una compagnia di canto affiatatissima, che la bacchetta di Federico Maria Sardelli, alla testa dell’Orchestra dell’Accademia della Scala, dirige con brio ma con qualche decibel sonoro di troppo e un’inquadratura d’impostazione che non cede mai alla rigidità (talvolta tipica a direttori di estrazione barocca come lui) perché il senso del teatro glielo impedisce e, all’opposto, permette a Sardelli di far ammirare una direzione sempre nel segno della scorrevole vitalità.

Sul palcoscenico si impone l’Olivo di Bruno Taddia. In lui finisce per vincere sempre l’artista, perché l’attore prevale sul cantante in virtù di una musicalità che ne sostiene la recitazione irresistibilmente calamitante, voluta opportunamente sopra le righe per delineare l’indole biliosa del personaggio, a fibrillazione inarrestabile, così da nascondere sapientemente le non trascurabili pecche vocali dietro al gesto scenico e all’abilità, davvero singolare, nel delinearne il carattere giocando sull’accento e la parola utilizzate in senso teatrale. Valida anche la prova di Filippo Morace, interpretativamente meno significativo, ma nell’insieme efficace nel cogliere il lato bonario del vero napoletano (per di più con ottima padronanza del dialetto), almeno per come si è soliti immaginarlo. Laura Giordano è una Isabella dalla vocalità fresca e puntuta, a suo modo anche sciolta nel canto di agilità, ma non è una vera virtuosa e nel finale si disimpegna come può, senza dar fuoco alla miccia di un virtuosismo solo apprezzabile. Dei due tenori, entrambi impegnati in parti vocalmente ardite, Pietro Adaini ha voce interessante ma ancora troppo acerba per venire a capo della parte di Camillo, innamorato ostacolato di Isabella, così che suoni nasali in acuto gli compromettono alquanto le buone intenzioni di una linea vocale decisamente più controllata in Matteo Macchioni, di timbro più chiaro e squillante, che nei panni di Le Bross emerge soprattutto quando il canto gli concede abbandoni sentimentali che si apprezzano nel citato duetto con Isabella del secondo atto. Ottimi i ruoli di contorno, che tanto secondari non sono perché Edoardo Milletti, ottimo Columella, Silvia Beltrami, Matilde spiritosissima, scenicamente caratterizzata con ironia e importante rilievo vocale, così da farne una creazione interpretativa da manuale, e Giovanni Romeo, eccellente Diego, riescono a fare dei loro ruoli autentici personaggi.

Alla fine delle quasi tre ore di spettacolo applausi festosi per tutti per la riscoperta di un’opera che capolavoro forse non è, ma che era dovere di un festival riprendere in uno spettacolo risultato godibile e ben congegnato.

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