“Don Carlo” inaugura a Parma il Festival Verdi 2016

 

Immagini: Roberto Ricci

La notizia, buona per una volta, è che a Parma, con il Festival Verdi, la città sembrerebbe aver finalmente compreso come il nome di Giuseppe Verdi possa essere speso per attirare pubblico in terre dove il buon vivere è ancora una regola, declinata sotto forma di bellezze artistiche da ammirare e di cibi da gustare, ma anche di opera lirica radicata – come avviene in pochi altri posti al mondo – a questo territorio, legata soprattutto alla produzione del genius loci, al quale il Teatro Regio dedica da anni un festival che si svolge nelle terre verdiane: a Parma e a Busseto. Dopo alcuni anni di programmazione a corrente qualitativa alternata, quest’anno lo sforzo produttivo è considerevole e ben augurante, con tre opere in cartellone legate al binomio Verdi-Schiller, Don Carlo, Giovanna d’Arco e I masnadieri, più una terza, popolarissima, Il trovatore. Un festival che si è aperto all’insegna del tutto esaurito e della presenza di un pubblico formato da molti stranieri, segno che il Teatro sta operando saggiamente a livello di marketing per fare di questo appuntamento autunnale una tappa obbligata per i melomani, così come per i turisti che recandosi a Parma possono apprezzare buona musica verdiana.

Ad aprire il Festival è stato un nuovo allestimento di Don Carlo, proposto nella versione in quattro atti, premiato da un buon successo e dalla clemenza di un pubblico di loggionisti – la vera anima appassionata di questo teatro, per competenza ma spesso anche per severità di giudizio sul valore degli spettacoli – che ha graziato un’esecuzione certo non memorabile seppure non priva di diversi meriti.

La direzione d’orchestra di Daniel Oren, scoordinata più che mai, anche se ricca di risvolti espressivi assai interessanti, vira verso una sostanziale vigoria sonora che solo talvolta si piega a spunti lirici che portano a rallentare i tempi fino a mettere in difficoltà i cantanti. Al maestro israeliano manca un disegno musicale condiviso con una compagnia di canto nella quale c’è chi fa a gara a far la voce grossa, mentre altri tentano la strada di una intimizzazione dagli interessanti risvolti interpretativi, autenticamente verdiani nella ricerca del segno della “parola scenica”, anche quando non sostenuti da un adeguato accento.

E’ il caso del Filippo II di Michele Pertusi, il vero asso nella manica di questa edizione di Don Carlo, al quale manca (come era facile aspettarsi da una voce come la sua) la regalità altera del monarca autorevole, ma non la volontà di ricercare la verità del personaggio all’interno di una introspezione umanamente sofferta e commossa. Il meglio della sua interpretazione non lo si coglie tanto nel duetto con il Marchese di Posa e in quello con Il Grande Inquisitore, o nella scena dell’Autodafé, ma nel monologo che apre il terzo atto, cantato con un legato pastoso e nobile, con momenti di vera emozione all’attacco dell’ultimo “Ella giammai m’amo”, quasi sussurrato, consapevole di come il potere di un imperatore non possa nulla dinanzi alla presa di coscienza di essere solo con se stesso a fronte della carenza di affetti veri che lo attorniano, compreso quello di non sentirsi amato dalla propria consorte. Il potere regale schiacciato dall’ingerenza dell’altare, il travaglio per la ribellione del proprio figlio e, più ancora, il dolente abbandono, avvinto e desolato dinanzi all’amarezza per il tradimento di Elisabetta che lo colpisce nella sfera coniugale, fanno del Filippo II di Pertusi un capolavoro di interpretazione che travalica ogni comune cliché vocale al quale ci si è abituati (in termini di peso specifico vocale e scolpitezza di accenti da autentico basso) per andare piuttosto a cogliere l’essenza del personaggio al cuore della sua dimensione più intima e vera. Tutto questo fa di un cantante un vero artista, e Michele Pertusi lo è, come ha pienamente dimostrato con questo primo approccio ad un ruolo non abbozzato, ma già sapientemente vissuto e sentito perché costruito, frase dopo frase, per illuminarne l’aspetto più schiettamente verdiano: appunto quello della solitudine dell’uomo stanco e sconfitto difronte al potere che lo logora e lo pone dinanzi alla mancanza di solidi riferimenti affettivi con i quali confidarsi, confinando ogni suo gesto in un composto dolore. Le stesse buone intenzioni animano il Marchese di Posa del baritono Vladimir Stoyanov, se non fosse che la bella linea di canto, di elegante e ricercata raffinatezza, soprattutto nella scena del terzo atto, non è sostenuta da una resa vocale spesso stinta e opaca, con non poche note sfibrate nel settore acuto. L’altra frangia del cast vocale è meno soddisfacente. Il tenore José Bros, dopo anni di frequentazione col repertorio del primo Ottocento italiano, con ottimi risultati raggiunti in Bellini e Donizetti, tenta la carta del tenore verdiano approcciando un ruolo ingrato e impegnativo come quello di Don Carlo. Le troppe nasalità d’emissioni e le forzature vocali in acuto denunciano come questo repertorio sia un po’ troppo pesante per una vocalità che predilige il canto di grazia. Volenterosa la prova del soprano Serena Farnocchia, che non ha nel gesto come nella voce di impasto lirico privo di sostanza drammatica le carte in regola per sostenere la difficile parte di Elisabetta di Valois, ma amministra bene le forze e arriva al cimento dell’atto finale con onorevole determinazione ed eccellente musicalità. Della Principessa Eboli di Marianne Cornetti si segnala il tonnellaggio vocale scomposto e tutto sopra le righe, che le crea diversi incidenti nella “Canzone del velo” per mancanza di flessibilità, ma che trova miglior sfogo in un “O don fatal” vocalmente sgangherato ma tutto sommato d’effetto se solo fosse sostenuto da una presenza scenica più aristocratica. Nelle parti di contorno il cast annovera il pessimo Ievgen Orlov (Il Grande Inquisitore), il decoroso Simon Lim (Un frate), la deliziosa Lavinia Bini (Tebaldo), l’impeccabile Gregory Bonfatti (Il Conte di Lerma e Un Araldo Reale) e Marina Bucciarelli (Voce dal cielo).

Dello spettacolo si segnala la visione cimiteriale di scene, firmate da Maurizio Balò, composte da quinte e sipari marmorei che sembrano lapidi tombali e disegnano ambienti dove i personaggi si muovono in costumi, dello stesso Balò, per lo più neri e grigi. L’oppressione del potere religioso dell’Inquisizione è una costante e trova modo, nella scena dell’Autodafé, di essere esternata con una processione di carri lignei trascinati da uomini con i classici copricapi a cono da somaro che trasportano uomini sanguinanti per le torture subite. Ma il bell’impianto scenico non ha, nella regia di Cesare Lievi, il gusto sostegno capace di dare anima e vita ai personaggi, con interventi spesso inopportuni e avulsi da un contesto drammaturgico che avrebbe richiesto un’analisi registica ben più approfondita.

Intanto, sempre nell’ottica di un buon operare per il futuro, è già noto in anteprima il cartellone del Festival Verdi 2017: Jérusalem, La traviata, Stiffelio, Falstaff, Messa da Requiem.

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