Shimon Peres, l’ultimo dei grandi di Israele

Shimon Peres era l’ultimo dei grandi di Israele. Apparteneva, con Ytzhak Rabin, Moshè Dayan ed Ytzhak Shamir, a quella generazione che aveva tra i venti e i trent’anni quando, nel dopoguerra, venne fondato lo Stato israeliano. Accanto ai veri e propri padri fondatori, come David Ben Gurion, c’era questa cerchia di giovani dirigenti, spesso provenienti dall’esercito, che costituì la spina dorsale della nascente nazione ebraica, accerchiata da cento milioni di arabi, divisi su tutto tranne sul fatto di voler cancellare la Stella di Davide dalla faccia della terra.

Nato nel 1923, a Visneva, località bielorussa all’epoca polacca, emigrò con la famiglia in Terra santa negli anni Trenta, qualche anno prima della feroce persecuzione nazista. Dopo una breve, ma significativa, esperienza nel mondo dei kibbutz, decise di entrare in politica nel Mapai, una formazione di sinistra da cui molti anni dopo nacque il Partito laburista. Del laburismo e della sinistra israeliana, Peres divenne l’esponente di punta, approdando nell’Internazionale socialista di cui fu anche eletto vicepresidente.

Dopo esser stato ministro dei Trasporti e della Difesa, occupò in tre occasioni la carica di Primo ministro, per due volte succedendo a Rabin, generale prestato alla politica (come in Francia lo fu De Gaulle). Accadde nel 1977, quando Rabin si trovò impelagato in uno scandalo valutario, e poi nel novembre 1995, in circostanze assai più tragiche, quando il generale venne ucciso da un estremista ebraico. In mezzo a queste due esperienze, nel biennio 1984-86, Peres guidò un esecutivo di coalizione con i conservatori del Likud.

Entrambe le volte che sostituì Rabin risultò sconfitto poi alle elezioni immediatamente successive che avrebbero invece dovuto fornirgli legittimità popolare. Il fatto è che Peres, era più un intellettuale che un politico. Saggio ed avveduto, poco propenso alla facile demagogia. Era – tanto per capirci – simile al nostro Ugo La Malfa o al francese Raymond Barre: personaggi molto ascoltati ma poco capaci di suscitare entusiasmi nelle urne. E così dovette passare la mano sia nel 1977 che nel 1996, in questo secondo caso all’astro nascente della destra israeliana, Benjamin Netanyahu.

Per certi versi, può dirsi che le sue indubbie doti politiche riuscirono meglio a risaltare quando si trovò alla guida della diplomazia, come ministro degli Esteri, che non alla guida di un governo, nel ruolo di premier. Come responsabile degli Esteri preparò infatti tra il ’92 e il ’93, il piano di pace con i palestinesi, partendo dal riconoscimento dell’Olp, sino ad allora considerata alla stregua di un’associazione terrorista.

Quella che poi sfociò negli accordi di Oslo fu, senza dubbio, la sua migliore stagione. Ricordiamo ancora con emozione la cerimonia sul prato della Casa Bianca, nel settembre 1993, che lo vide protagonista, insieme a Rabin ed a Arafat. Poi, l’anno successivo arrivò pure il Nobel per la pace. In quegli anni la speranza di un Medio Oriente finalmente pacificato parve davvero a portata di mano. Un sogno spezzato brutalmente dall’ assassinio di Rabin che pose fine ad un periodo forse irripetibile.

Dopo la morte di Rabin, Peres divenne Primo ministro ma, si capì quasi subito, che il fine mediatore, in grado di costruire gli equilibri più sapienti, non aveva il carisma del suo predecessore. Il processo di pace finì lentamente per arenarsi e il ritorno della destra, con l’arrivo di Netanyahu al potere, lo bloccò definitivamente. Un decennio dopo, nel 2005, Peres divenne vicepremier nel governo guidato dal suo amico-rivale Ariel Sharon. Fu l’ultima volta, con il ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza, che Israele si ritagliò una parte attiva nel processo di pace.

Nel 2007 – meritatamente come poche volte lo si può dire per un uomo politico – Peres fu eletto presidente della Repubblica. In tale veste, di guida morale del Paese, si spese per la laicità (a dispetto di una crescente deriva confessionale), per l’uguaglianza (contro le discriminazioni verso la minoranza araba) e per la pace in Medio Oriente. Una pacificazione tra i popoli di cui, per tutta la vita, fu un instancabile architetto.

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