“Giro di vite” alla Scala, uno spettacolo di pregio

Un’inquietante storia di fantasmi nella vecchia Inghilterra, dietro alla quale si cela una torbida vicenda di abusi, oppure il frutto dell’ossessione di una istitutrice che lotta contro gli spettri della sua psiche e le nevrosi che le fanno vedere cose orribili? La seconda soluzione sembrerebbe rispecchiare, assai più della prima, la visione impressa dal regista Kasper Holten per la prima scaligera in lingua originale (l’opera era già stata eseguita alla Piccola Scala, ma nella traduzione ritmica in italiano) de The Turn of the Screw  (Il giro di vite) di Benjamin Britten. 

Con questo nuovo allestimento, l’attuale direttore artistico del Covent Garden di Londra, raffinato regista, offre una lettura indubbiamente intrigante per un’opera composta da Britten su libretto che Myfanwy Piper trasse dall’omonimo racconto di Henry James. Una vicenda di fantasmi, condita con suspence da film giallo, in cui si narra della lotta intrapresa da una giovane Istitutrice per strappare i bambini che le sono stati affidati, Miles e Flora, agli influssi malefici della precedente istitutrice, Miss Jessel, e del cameriere, Quint. Questi ultimi, seppure morti, riappaiono come spettri all’Istitutrice e tentano con malvagi sotterfugi di sottrarre per sempre i bambini al loro infantile candore. Il conflitto fra bene e male ha un epilogo tragico per il piccolo Miles, che riesce a liberarsi dalla diabolica possessione di Quint, ma la paga a caro prezzo con la vita.

In quest’opera di atmosfere sinistre e malsane, dove l’ordito strumentale cameristico raggelante e allucinato sostiene una vocalità il cui lirismo si rifà alla tradizione del canto britannico antico, alla cromia chiesastica della tradizione corale inglese e ad un tipo di vocalità che ha i suoi modelli nei madrigali elisabettiani e nella musica di Purcell, tutto sembra piegarsi verso l’anelito nostalgico ad una fanciullesca purezza contrapposta alla malvagità di chi, invece, vuole impossessarsi dell’infantile innocenza. Il concetto dell’uomo “diverso” rifiutato dalla società (come era avvenuto in un’altro capolavoro di Britten quale Peter Grimes), o quello della “frustrazione dell’innocenza” che svela l’interesse per la sfera dell’infanzia, simbolo della purezza offesa da parte di chi perseguita l’indifeso, sono temi che si collegano a componenti costanti nel teatro musicale di Britten: il diverso e il bambino sono due lenti di uno stesso obiettivo di svilimento al quale mira il pregiudizio del comune sentire e lo sfruttamento del mondo adulto a danno del debole.

Lo scandaglio operato da Britten sul negativo, sul mistero del male che coinvolge in tormentati nodi psicologici e in una atmosfera viziata e soffocante questo mondo innocente dell’infanzia, si riflette in The Turn of the Screw sulla presenza di un maligno che si esprime attraverso la voce di un tenore, Quint, e di un bambino, Miles, che canta con voce bianca, per avvolgere tutta l’opera in un clima di sospeso mistero.

Eppure lo spettacolo di Holten sembra più preoccupato di evocare i fantasmi che agitano la mente confusa dell’Istitutrice e la fragilità di una personalità distorta dai suoi stessi pensieri inconsci, piuttosto che cercare un percorso registico attinente alla violazione dell’innocenza attraverso una storia dai risvolti angosciosi, inquietanti ed anche ambigui.

Le scene in bianco e nero, di vaga ambientazione vittoriana, la visione di una scenografia che si sviluppa su diversi piani e stanze, vista con l’occhio di una macchina da presa che focalizza porzioni di scena che sono oasi dell’inconscio ove si svolgono i quadri dell’opera, contribuiscono a trasmettere il senso di claustrofobica alienazione di una donna che non sembra essere in grado di controllate i fantasmi della sua stessa mente, vittima di una psiche repressa, colma di incertezze e paure che sono retaggio di una castrante educazione puritana; tenta di proteggere i bambini dai fantasmi ma nient’altro è che vittima della sua instabilità emotiva. Questo rende l’idea registica di Holten originale, ma talvolta depistante poiché troppo concentrata a dar l’immagine di una protagonista in balia delle proprie insicurezze, di soffocati desideri e istinti naturali.

Il labirintico linguaggio strumentale britteniano, assai teatrale, con tutta l’angoscia interiore che attraversa musica e canto, viene illuminato dalla direzione d’orchestra di Christoph Eschenbach con asciutta concretezza, prodigo di trasognate allucinazioni che rendono il lirismo britteniano per nulla scontato, colto nella dimensione più consona alle atmosfere dell’opera e alla vocalità degli interpreti. A partire dalla Istitutrice del soprano Miah Persson, che tratteggia il personaggio con un velo di isterismo ricco di fibrillazioni emotive ben in equilibrio fra oasi liriche e scatti in acuto che comunicano la dimensione espressiva di una psiche turbata. Nulla più che decorosi i bambini del Trinity Boys Choir che danno voce a Flora e Miles, rispettivamente Louise Moseley e Sebastian Exall, quest’ultimo voce bianca, così come Jennifer Johnston, Mrs. Grose, e Allison Cook, Miss Jessel, assolvono il loro compito con buoni risultati. Ma il vero fulcro di eccellenza del cast è il tenore inglese Ian Bostridge, la cui prestazione, seppure vocalmente interlocutoria, è di levatura artistica superiore. Certo ad inizio opera, quando sostiene la parte del Prologo, la voce appare dura e opaca, come chiusa in se stessa. Il meglio lo dona al momento in cui, vestendo gli incorporei panni di Quint, chiama a sé Miles nell’ultima scena del I atto con un lungo vocalizzo ipnotico, che oscilla fra il melisma gregoriano e la coloratura monteverdiana su un sottofondo musicale sostenuto dal rarefatto suono della celesta. La voce, per quanto diseguale nell’emissione, si carica di quel biancore tipico a molte voci tenorili britanniche; esso colora i centri della voce così come gli acuti, per altro non esili ma ben udibili anche in una sala grande come quella della Scala, avvolgendoli in una guaina espressiva lattiginosa che pare essere immagine del personaggio stesso: spettrale, ambiguo e malsano; la vera voce di un fantasma del male! L’interprete, alto e dinoccolato, è perfetto per un ruolo che conferma in questo colto e ricercato tenore britannico la classe che supera ogni evidente ma perdonabile riserva vocale.

Successo finale senza macchia per uno spettacolo di pregio.

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