Il nucleare trent’anni dopo Chernobyl

Trent’anni fa, nella notte del 26 aprile 1986, avvenne quello che è tuttora il più grave disastro mai provocato dall’uomo, l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, allora parte dell’Urss. Mentre veniva effettuato (ironia della sorte) un “test di sicurezza”, il reattore andò fuori controllo, provocando un’esplosione di tale potenza da scoperchiare l’edificio, con abbondante fuoriuscita di materiale radioattivo. Il surriscaldamento del nocciolo aveva causato un elevato aumento della temperatura e della pressione dell’impianto di raffreddamento, facendo saltare le tubature, mentre le barre di grafite che avevano il compito di mantenere la reazione nucleare sotto controllo e che erano state incautamente disinserite, divenute incandescenti, avevano innescato l’esplosione dell’idrogeno prodotto dalla scissione delle molecole d’acqua. Non si trattò dunque, come molti credono, di un’esplosione atomica, ma di una “semplice”, se così si può definire, detonazione chimica. Ciononostante, per la prima volta l’incidente venne classificato come “catastrofico”, al livello 7, quello massimo, dell’apposita “Scala INES” dell’AIEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Un evento di gravità eccezionale, destinato a essere quasi eguagliato, circa un quarto di secolo dopo, dall’incidente di Fukushima, causato cinque anni fa da un maremoto che colpì in pieno una centrale atomica giapponese.

La tragedia di Chernobyl determinò un elevato numero di vittime, mai quantificato esattamente a causa di una “forbice” troppo ampia fra le diverse valutazioni, che a partire dai 66 morti accertati si amplia a stime di decessi che vanno dalle poche migliaia a qualche milione. Quel che è certo sono le conseguenze a lungo termine di tale evento: la contaminazione radioattiva è destinata a perdurare per decenni, secoli o millenni, a seconda del periodo di decadimento dei vari elementi radioattivi dispersi nell’ambiente, quindi per lungo tempo quelle zone sono destinate a diventare off limits per qualsiasi attività umana, pena il rischio di mettere a repentaglio la propria incolumità. Le radiazioni sono infatti in grado di provocare danni fatali alla salute, in misura proporzionale al livello di contaminazione ambientale e al tempo di esposizione. Già in precedenza la tecnologia della fissione nucleare aveva evidenziato delle criticità, ma la sciagura di Chernobyl rappresentò un punto di non ritorno: fu proprio a causa dello sgomento provocato da quella catastrofe, che dall’Unione Sovietica si era riverberata su tutta l’Europa, che i cittadini italiani, chiamati a esprimersi tramite referendum, decisero di escludere totalmente l’utilizzo di una fonte energetica così pericolosa e problematica. Una scelta avvenuta certamente sull’onda emotiva suscitata dal tragico evento, ma che a posteriori si è rivelata corretta e lungimirante. Lo ribadisce a chiare lettere Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del CNR ed esperto energetico fra i più quotati all’estero, nell’editoriale di aprile della rivista Sapere: “Sono passati oltre sessant’anni dall’entrata in funzione del primo reattore nucleare civile, e il sogno di produrre quantità immense di elettricità a prezzi irrisori si è dissolto nel più colossale fiasco industriale, tecnologico e finanziario di tutti i tempi. L’industria nucleare è in agonia da decenni, colpita a morte dalla sua insostenibilità economica, dalla sua inestricabile complessità, dal legame ambiguo ma indissolubile con il nucleare militare (a Chernobyl si produceva anche plutonio per bombe), dalla sua molteplice vulnerabilità a eventi naturali catastrofici (Fukushima), problemi tecnici (Three Mile Island) o errori umani (Chernobyl).”

Oltre all’eventualità non remota di eventi disastrosi, dunque, sussistono anche altri problemi. Per quanto riguarda i legami con l’industria bellica, vale la pena ricordare anche le problematiche legate all’uranio impoverito, cioè lo scarto del procedimento di arricchimento dell’uranio necessario per produrre il combustibile idoneo a far funzionare le centrali nucleari. Questo sottoprodotto è a sua volta radioattivo, e fuoriesce dal ciclo produttivo in misura 10 volte superiore a quella dell’uranio destinato alla produzione di energia elettrica, con i relativi problemi di stoccaggio. Dal momento che si tratta di un materiale dal peso specifico molto elevato, l’industria militare ha pensato di utilizzarlo per produrre munizioni estremamente efficaci, per esempio, nel penetrare le corazze dei mezzi pesanti. Questo tipo di armi, utilizzato nel conflitto in Bosnia-Erzegovina, sarebbe secondo alcuni causa della cosiddetta “sindrome dei Balcani”, un insieme di malattie che hanno colpito con incidenza statisticamente sospetta i militari italiani impegnati in zona di conflitto.

Quanto ai problemi economici, ancora Armaroli ci ricorda che, nonostante i cospicui aiuti finanziari pubblici di cui ha goduto, “il colosso industriale del settore, la francese Areva, è tecnicamente fallita: il suo catastrofico bilancio è stato preso in carico dallo Stato attraverso l’azienda elettrica EDF.”

Infine, il problema delle scorie radioattive, ovvero tutti i residui contaminati risultanti da processi industriali che utilizzano materiali radioattivi, dalle centrali nucleari alla medicina radiologica. Un problema particolarmente rilevante per il Piemonte, come evidenzia il consigliere regionale Marco Grimaldi: “il sito di Saluggia, in territorio piemontese, è già di fatto la discarica nucleare nazionale, dal momento che qui è stoccato il 96% delle scorie radioattive presenti in Italia”. Grimaldi, che proprio in occasione del trentennale della tragedia di Chernobyl ha preso parte a una manifestazione di solidarietà con i cittadini di Saluggia, sottolinea come “il sito in questione non sia assolutamente adatto a ospitare una discarica nucleare, in quanto si trova sopra a una delle falde acquifere più importanti del Piemonte. Anche l’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), nelle sue valutazioni, ha evidenziato come questo territorio sia una sorta di triangolo circondato da acque (la Dora Baltea e due canali) a forte rischio di esondazione”. Tuttavia, prosegue Grimaldi “nella sua istanza di disattivazione, la stessa Sogin, responsabile dell’impianto, afferma che non è previsto alcun deposito nazionale definitivo fino al 2035. Anzi sono state ampliate le cubature dei depositi di Saluggia per accogliere nuove scorie, e si ipotizza di implementare ulteriormente le volumetrie. In sostanza, quello che doveva essere un sito di stoccaggio provvisorio ospita rifiuti radioattivi da oltre trent’anni e rischia di fatto di diventare definitivo, nonostante la manifesta inadeguatezza del territorio. E in un futuro prossimo dovrebbe rientrare qui anche il materiale nucleare inviato all’estero per essere “riprocessato”, ma che continuerà a essere radioattivo”. Una sorta di “scoria infinita”, come la definisce, parafrasando il titolo di un film, lo stesso Grimaldi, che ha cercato di porvi rimedio facendosi promotore di una mozione votata dal Consiglio Regionale, in cui si chiede al Governo di rendere almeno nota la lista dei possibili siti idonei allo stoccaggio. Richiesta caduta nel vuoto, per cui se continuerà la latitanza delle funzioni centrali, Grimaldi proporrà in Regione l’adozione di una delibera volta a bloccare l’ulteriore ampliamento della discarica nucleare di Saluggia e a fare in modo che le scorie “riprocessate”, al momento del loro rientro in territorio italiano, vengano reindirizzate in altri siti più idonei.

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