Burundi: un conflitto dimenticato

Oltre 400 vittime e 240 mila profughi, secondo i dati forniti dall’Onu. È l’ennesima crisi che colpisce il Burundi, stato africano tormentato da decenni di guerra civile, conflitti etnici e povertà endemica. Lo scoppio delle ostilità interne, che alcuni ritengono una guerra civile strisciante e potenzialmente esplosiva come quella che devastò il vicino Ruanda 22 anni or sono, risale allo scorso aprile, quando il Presidente Nkurunziza decise di ricandidarsi per il terzo mandato consecutivo. La Costituzione della Repubblica africana prevedeva un massimo di due mandati per ogni Capo dello Stato, circostanza che portò immediatamente a durissime contestazioni da parte dell’opposizione. Nonostante l’evidente situazione di tensione nel Paese, Nkurunziza ha portato avanti il suo proposito e ha riottenuto l’incarico in elezioni boicottate dalle opposizioni e non riconosciute dalla comunità internazionale che le ha giudicate “non credibili” per l’assenza di osservatori internazionali. La piega antidemocratica imposta dal Presidente ha provocato una presa di distanza da parte di Stati Uniti e Unione europea, che tuttavia non hanno intrapreso azioni concrete nei confronti di quello che si profila come un nuovo regime, se si esclude il congelamento degli aiuti umanitari, misura per certi aspetti controproducente, perché non intacca minimamente i poteri forti, mentre va a gravare sulle spalle della popolazione, peggiorando le condizioni di vita in un Paese già attanagliato da povertà endemica anche in circostanze normali.

A confermare la gravità della situazione, oltre alle (scarse) notizie delle agenzie di stampa, sono le organizzazioni umanitarie presenti nel Paese o in contatto con associazioni locali. Fra queste, il CISV (Comunità, Impegno, Servizio, Volontariato) di Torino, che ha iniziato le proprie attività umanitarie oltre cinquanta anni fa proprio in Burundi, Paese nel quale attualmente non ha progetti diretti, ma dove continua a supportare organizzazioni locali impegnate in un percorso di transizione verso l’autosufficienza e lo sviluppo autonomo, in particolare nella capitale Bujumbura e nell’insediamento rurale di Rabiro “dove abbiamo ancora delle case rimaste vuote che stiamo cercando di valorizzare in favore di associazioni di contadini e vedove di guerra”, ci dice Federico Perotti, presidente dell’associazione, che coordina in particolare i progetti in territorio africano e che in passato ha prestato servizio per circa due anni in Burundi. La situazione, prosegue “si è incancrenita da quando il Presidente si è insediato per il terzo mandato, ma già prima che venissero approvate le modifiche alla Costituzione per consentirgli di ripresentarsi alle elezioni c’erano state proteste. Tanto che la missione internazionale incaricata di sorvegliare il processo elettorale aveva già ritirato gli osservatori, ritenendo la consultazione non valida”. Il Presidente, appartenente all’etnia hutu e la cui famiglia ha subito gravi perdite durante le varie guerre civili che hanno insanguinato il Paese, ha subito alzato i toni contro l’etnia rivale tutsi, utilizzando atteggiamenti e terminologie sinistramente simili a quelle che precedettero il genocidio del Ruanda, a sua volta diviso fra le medesime etnie. Ma Perotti frena sulle motivazioni razziali dello scontro in atto: “dopo un po’ che risiedi nel Paese, ti rendi conto che è difficile decifrare ciò che realmente succede. È più probabile che, al di là delle motivazioni etniche sbandierate, ci sia un semplice intento di perpetuare il proprio potere ben oltre a quello di un normale mandato elettivo a scadenza. Una situazione, quella dei “Presidenti a vita”, che riscontriamo anche nei Paesi limitrofi, e che spiega anche la riluttanza dell’Unione Africana a mandare in Burundi una forza di interposizione, visto che l’atteggiamento di Nkurunziza non è certo un caso isolato. In tal modo, il Presidente arroccarsi al potere portando avanti indisturbato un sistema di favoritismi e corruttele che danneggia lo sviluppo del Paese, mentre prosegue l’eliminazione fisica degli oppositori politici: recentemente, sono anche state scoperte delle fosse comuni, a seguito di omicidi di massa”.

Quanto alla comunità internazionale, stigmatizza Perotti, “non c’è stata alcuna presa di posizione risolutiva, nonostante la visita ufficiale del Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon, a parte il recente invio di pochi ispettori ONU, una delegazione evidentemente insufficiente. Mentre il blocco degli aiuti internazionali rischia di portare la popolazione alla fame, specie dopo che i tagli ai finanziamenti hanno provocato un drastico calo delle missioni di cooperazione e sviluppo, comprese le nostre”.

Nonostante ciò, il Cisv e le altre organizzazioni umanitarie non cessano di portare supporto, per quanto possibile, a un Paese stremato, mentre dal canto suo Amnesty International denuncia con forza le violazioni dei diritti umani di cui si sta macchiando il regime del Presidente. Ma “la preoccupazione per il futuro immediato – conclude Perotti – oltre che per il deteriorarsi della situazione nel Paese, è per ciò che questo può comportare anche nelle nazioni limitrofe. La bomba innescata dai disordini in Burundi potrebbe esplodere coinvolgendo l’intera regione dei Grandi Laghi in uno scenario di destabilizzazione e conflitto”. Un teatro di guerra nel quale si dovrebbe intervenire prontamente e con risolutezza, dunque, prima che la situazione degeneri in maniera incontrollabile, provocando altre migliaia di morti e, probabilmente, nuove ondate migratorie, di quelle che spaventano tanto la pavida, irresoluta ed egoista Unione europea.

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