Expo – Il mercato globale del cibo

Expo – il mercato globale del cibo

L’inaugurazione dell’Expo ha aperto un lungo semestre durante il quale il cibo, in tutti i suoi aspetti, sarà al centro dell’attenzione mediatica e dell’opinione pubblica. Lo slogan ufficiale della manifestazione, “Nutrire il Pianeta. Energia per la vita” richiama in modo inequivocabile la funzione primaria del cibo quale fonte di sostentamento per tutti gli esseri viventi, uomo incluso, sottolineando implicitamente la sua importanza fondamentale. È chiaro però che una “risorsa primaria” così imprescindibile e vitale scatena anche “appetiti” (il parallelo è inevitabile…) di stampo economico-speculativo, specialmente in un mondo ormai pervicacemente orientato alla ricerca del profitto, molto spesso anteposto anche al bene comune e ai diritti delle persone, compreso quello a una sana e corretta alimentazione.

Anche il cibo non sfugge dunque alle ferree e spietate regole del mercato, e ne subisce le dinamiche, spesso deleterie, volte a privilegiare la quantità e il basso prezzo rispetto alla qualità e alla tutela della salute delle persone e dell’ambiente. Oltretutto, i volumi in gioco, di merci e denaro, sono colossali, mentre il mercato è sempre più concentrato in poche mani forti, in grado di condizionare produzioni e consumi dal campo alla tavola, dal seme al palato. Una realtà più o meno nota a tutti, ma forse non nelle sue dimensioni effettive, che vale la pena evidenziare con una panoramica generale, anche senza entrare nel dettaglio.

L’analisi parte da un prologo che addirittura precede il seme e la sua messa a dimora nel campo: va ricordato infatti che per millenni la Terra ha fornito in maniera spontanea tutto ciò che serviva alle piante per crescere, circostanza sfruttata dagli esseri umani sia quando erano dei primitivi raccoglitori che quando hanno deciso di evolversi in agricoltori. Solo in tempi relativamente recenti, successivi all’epoca industriale, i ritmi e le rese della natura hanno iniziato ad andare stretti a un’umanità in rapida accelerazione tecnologica e demografica, che ha iniziato a pensare a come potenziare i cicli naturali. È a questo punto che fanno la loro comparsa i fertilizzanti chimici, destinati a implementare e moltiplicare le rese dei terreni, avvicinando l’agricoltura alle logiche produttive industriali. Non ci interessa, in questo contesto, discutere se e come ciò sia stato un bene o un male e quali e quanti siano gli aspetti positivi o negativi legati a questa rivoluzione produttiva. Quello che ci preme è evidenziare i numeri legati a questo aspetto dell’agricoltura, a partire dal bilancio energetico, perché è evidente che produrre concimi chimici richiede un impiego di energia e risorse esterne al ciclo dell’agricoltura, di cui occorre tenere conto nella valutazione costi/benefici: alcuni studi quantificano il fabbisogno energetico dell’agricoltura industriale superiore di circa venti volte rispetto a quella naturale, per singola unità di prodotto. Tuttavia, le rese globali sono senz’altro più elevate, tanto che il giro d’affari dei fertilizzanti, a livello mondiale, si attesta sui 160 miliardi di dollari, di cui il 30% ad appannaggio dei cinque produttori principali.

Cifre di uguale ordine di grandezza le ritroviamo anche nel mercato globale di sementi e pesticidi, che contribuiscono metà ciascuno a un fatturato complessivo di 80 miliardi di dollari, concentrato per circa il 60% nelle mani di quattro sole multinazionali (Syngenta, Monsanto, Du Pont e Bayer) con fatturati stellari, che tuttavia non le hanno messe al riparo da un certo numero di guai giudiziari ed economici conseguenti alle loro produzioni: in alcuni casi, sono state trascinate in tribunale e costrette a riconoscere indennizzi milionari. Le stesse aziende hanno anche l’esclusiva mondiale delle sementi Ogm (Organismi Geneticamente Modificati, frutto di incroci impossibili in natura, ottenuti con pratiche di ingegneria genetica), che vale circa un terzo dell’intero mercato delle sementi, per un controvalore di 15 miliardi di dollari. Tali sementi, al momento proibite in Unione Europea, sono già coltivate su 180 milioni di ettari, pari al 13% della superficie coltivata mondiale, in particolare negli Usa, dove l’estensione è maggiore in assoluto, e in Argentina, che ha invece la percentuale più alta, oltre che in Brasile, Canada e India. In quest’ultimo Paese, dopo un iniziale periodo di diffusione, si è assistito alla nascita di un vasto movimento di protesta contro lo strapotere delle multinazionali, alimentato anche dalle difficoltà economiche conseguenti a rese ben inferiori a quelle millantate e attese dalle sementi Ogm, tanto che oggi molti coltivatori stanno tornando alle pratiche tradizionali.

Come ricordato in precedenza, per il momento le sementi Ogm (principalmente soia, mais, cotone e colza) sono proibite nell’Ue, ma recenti prese di posizione della Commissione Europea e, soprattutto, l’accordo commerciale con gli Stati Uniti denominato TTIP, in fase di negoziazione avanzata anche se i suoi contenuti vengono tenuti nascosti all’opinione pubblica, potrebbero spalancare le porte del Vecchio Continente all’invasione delle coltivazioni geneticamente modificate provenienti da oltre oceano. Uno scenario poco auspicabile per un Paese come l’Italia, che ha nell’eccellenza e nella specificità delle proprie produzioni agro-alimentari un punto di forza qualitativo che rischierebbe di essere soffocato dalla massificazione e omogeneizzazione delle coltivazioni Ogm imposte dalle multinazionali che ne detengono i diritti di sfruttamento. Un serio rischio per il made in Italy agro-alimentare, apprezzatissimo a livello mondiale, sia dal punto di vista dell’immagine che sotto l’aspetto economico: vale la pena ricordare che il mercato degli alimenti, dove l’Italia è fra i leader indiscussi, vale il 10% del totale del commercio mondiale, per un controvalore di 1.650 miliardi di dollari. Rinunciare alla propria specificità in un contesto del genere sarebbe per il nostro paese un danno enorme, dopo che già abbiamo perduto il controllo su innumerevoli marchi di qualità, acquisiti da multinazionali straniere e presenti ormai solo sulle etichette.

La difesa del cibo di qualità e il recupero di spazi di autodeterminazione che ci affranchino dal dominio delle multinazionali dell’agrochimica (per esempio abbattendo l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi con l’implementazione delle coltivazioni biologiche e biodinamiche) potrebbero essere cruciali per difendere l’immagine e gli interessi economici dell’industria agro-alimentare italiana. È auspicabile che all’Expo si lavori in maniera pressante ed efficace su questo.

 

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