Scelta di campo

Alcuni osservatori si sono stupiti della rapidità con cui la Direzione nazionale del Partito Democratico ha deliberato nei giorni scorsi l’adesione al Partito del Socialismo europeo: la sorpresa evidentemente derivava dal ricordo delle lunghe, aspre e tediose discussioni svoltesi dal 2007 in poi – ossia dall’atto della costituzione del PD- sulla collocazione europea del partito, che spesso veniva evocata come una sorta di giudizio di Dio sull’autenticità o meno della vocazione riformista e progressista del nuovo soggetto politico.

La ferocia di queste discussioni era significativa dell’ autoreferenzialità di un ceto politico che, nell’infuriare di una crisi economica senza precedenti, considerava dirimente ai fini del dibattito pubblico, ossia in presenza di un’opinione pubblica in tutt’altre faccende affaccendata, prendere posizione sull’adesione o meno ad un soggetto politico transnazionale la cui esistenza è in Italia ignota ai più.

Ciò valeva per ambedue i contendenti, ossia per quei sedicenti popolari che dovevano prendere atto della deriva a destra del PPE e pretendevano di inventare una sorta di “via italiana al riformismo” di cui il PD era l’unico interprete in totale isolamento nelle dinamiche parlamentari europee, come pure per quei sedicenti socialdemocratici che a suo tempo si rifiutarono di aderire al PD proprio in nome del “socialismo europeo” e che quando il PD è approdato prima al gruppo parlamentare e ora all’adesione politica vera e propria hanno detto in sostanza che era troppo poco, confermando il sospetto per cui la questione vera per loro non era il socialismo europeo ma il comunismo italiano.

D’altro canto, che una revisione ideologica della sinistra socialdemocratica tradizionale fosse necessaria lo aveva teorizzato per prima la SPD tedesca, ossia il più antico partito politico del nostro Continente, fondato sotto gli auspici diretti di di Marx ed Engels. Era stato proprio Sigmar Gabriel, attuale Vicecancelliere federale, a stigmatizzare l’immobilismo e la stanchezza ideologica dell’Internazionale socialista di cui il suo partito era stato fondatore in epoca bismarckiana, avanzando la proposta di un’Alleanza progressista mondiale in cui per la prima volta accanto ai partiti socialdemocratici siedono a pieno titolo soggetti progressisti di matrice non marxista come il Partito del Congresso indiano e il Partito Democratico statunitense ( e quello italiano, beninteso). Non è un caso del resto che con l’ingresso del PD il PSE abbia assunto il nome di Partito socialista e democratico europeo.

Più in generale, nella rapidità della scelta del PD ha pesato l’approccio pragmatico e post ideologico di Matteo Renzi, il quale dovendo guidare il Partito ed il Governo in un anno complicato che sarà segnato prima dalle elezioni per il Parlamento di Strasburgo (con la buona possibilità di una vittoria di Martin Schulz come primo Presidente della Commissione eletto direttamente) e poi dal semestre italiano di presidenza del Consiglio dei Ministri europeo, ha ritenuto che questi fossero due ottimi motivi per inserire il PD, partito guida dell’attuale governo, in una posizione chiave in quella che potrebbe essere la prima forza politica europea.

Ma uno degli effetti da non sottovalutare di questo passaggio epocale gestito sottotono è l’azzeramento di due ipoteche ideologiche che pesavano sul PD fin dalla nascita.

La prima , come ha rilevato con finezza il direttore del “Regno” Gianfranco Brunelli, è quella di quel pensiero radicale progressista e neo -azionista di cui è portabandiera il fondatore di “Repubblica” Eugenio Scalfari, che di fatto ha esercitato la sua egemonia sull’area progressista italiana negli ultimi vent’anni soprattutto a causa del venir meno della coscienza identitaria dei soggetti che ne formavano il nerbo, in particolare gli ex comunisti e gli ex popolari. Renzi, che a Scalfari non sta simpatico, rappresenta una rottura di questa egemonia perché il consenso di quel mondo non lo interessa, e nello stesso tempo non vive il suo passato politico come una prigione e ancor meno come una colpa da espiare. D’altro canto, è lo stesso meccanismo neo-azionista ad essersi logorato dopo due decenni di battaglie antiberlusconiane, polarizzandosi fra un arroccamento intorno alle figure istituzionali e un ribellismo moralistico che appaiono parimenti astratti e slegati dalla realtà delle cose, come dimostra la polemica alquanto  narcisistica ed autocentrata intervenuta fra lo stesso Scalfari e Barbara Spinelli.

Ancor più importante è il definitivo superamento del meccanismo ricattatorio per cui le identità del passato, specie quella popolare, venivano vissute come una sorta di indefinita garanzia di partecipazione alla spartizione di posti e prebende, come dimostra la reazione indispettita di Giuseppe Fioroni, uno che su questo schemino ci ha costruita una non disprezzabile carriera. La riduzione della complessità di un pensiero politico ricco ed articolato come quello dei cattolici democratici a due o tre slogan per lo più di sapore interdittivo su materie come scuola, unioni di fatto, procreazione assistita e poco altro equivale di fatto a regalare alla destra una sorta di egemonia sulla presenza pubblica dei credenti poiché ne acquisisce il messaggio di fondo di natura conservatrice. Un errore in se stesso, e a maggior ragione in presenza di un Papa che dice apertis verbis di considerare incomprensibile la stessa espressione “valori non negoziabili”, sfidando i credenti che vogliono entrare nella vita pubblica a trovare nuove modalità espressive.

Diciamo pure che l’iniziativa di Renzi potrebbe rendere i militanti del PD   più liberi e più responsabili, senza alcuna coperta di Linus formalmente ideologica e concretamente assai carrieristica, senza più guru che dettano la linea, con tutta la gravità della situazione presente davanti e con il richiamo alle loro intelligenze e alle loro capacità per far avanzare le ragioni della democrazia e della giustizia sociale nel complicato mondo d’oggi.

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