Il paradosso del bipolarismo

Appare persin pleonastico ribadire che l’ “alternanza” è una caratteristica irrinunciabile della democrazia e che, teoricamente, un sistema tendenzialmente bipolare dovrebbe favorirla. La realtà però è più complessa, ed in Italia il massimo del bipolarismo lo si è avuto con una legge elettorale proporzionale, mentre dopo vent’anni di maggioritario si è prodotta una situazione che i politologi non hanno previsto. Non solo il bipolarismo si è progressivamente indebolito – i due partiti maggiori insieme a stento raggiungono la maggioranza assoluta dei voti validi, ed in valori assoluti rappresentano appena il 40% del corpo elettorale – ma, nei fatti, esso non esiste più dopo l’esito del voto dello scorso febbraio, che ha certificato l’esistenza di tre poli principali, più propriamente di altrettante minoranze. A Pd, Pdl e M5S a rigor di logica andrebbe aggiunto un quarto polo, quello centrista di Scelta Civica. Dopo che per anni è stato tanto enfatizzato il ruolo di leggi elettorali draconianamente maggioritarie (ed il “porcellum” lo è al massimo grado) nel favorire la costruzione di un solido bipolarismo, ci si ritrova invece con un sistema politico tri o quadri-polare interpretato da partiti frantumati, in crisi di identità e di idee.

Al di là di questa colossale rivincita della storia sugli stereotipi dell’ideologia, il paradosso in cui è sfociato la parabola del bipolarismo appare ancor più preoccupante. Si tratta del fallimento di ciò che di più prezioso c’è per la vita democratica: la coesistenza e la competizione tra progetti politici differenti ed alternativi. L’assento bipolare del nostro sistema politico rischia oggi più che mai di ridursi ad una scelta tra tonalità diverse di un medesimo colore. Nulla di nuovo, visto che è ciò che succede, ad eccezione della breve parentesi kennediana, negli Stati Uniti, dove le lobbies economico-finanziarie e militar-industriali sono abituate a definire il perimetro entro il quale è consentito muoversi all’Inquilino di turno della Casa Bianca.

Ma per molti in Italia è motivo di riflessione: si è costretti dai fatti a prendere atto che senza partiti capaci di reale rappresentanza, il traguardo della costituzione di un effettivo polo riformatore rischia di rimanere una chimera. A portata di mano si presentano solo alleanze raffazzonate, come i vari tentativi di riedizione dell’Unione prodiana, capaci forse di battere lo schieramento opposto ma non di governare insieme.

Se poi, come è possibile, il prossimo 8 dicembre, dopo il penoso spettacolo del tesseramento gonfiato, in cui i sedicenti “rottamatori” si sono dimostrati più spregiudicati nell’adottare gli stessi metodi di coloro che vorrebbero rottamare, la guida del Partito Democratico dovesse andare a Renzi, il paradosso del bipolarismo assumerebbe dei contorni imbarazzanti.

Occorre peraltro operare una distinzione netta tra Renzi ed il fenomeno del renzismo, di quella consistente parte di classe dirigente del Pd, che indossando la casacca dell’ ex-rottamatore ha inteso prima di tutto sottrarsi alle mire dei rottamatori di professione e sottolineare le proprie capacità di rinnovamento. Ad onor del vero questa opera di rinnovamento il Pd, nei pochi anni della sua storia, l’ha condotta unitariamente, e può oggi vantare dei dirigenti di base e dei rappresentanti nelle istituzioni molto rinnovati.

Ciononostante la sfida di Renzi appare abbastanza delineata e la sua corsa verso Palazzi Chigi potrebbe risultare inarrestabile nel caso di una sua conquista della segreteria del Pd, sebbene si dovranno comunque fare anche le primarie di coalizione.

Renzi offre a tutta la sinistra, compresa quella più sensibile ai temi sociali, la certezza della prosecuzione di questo bipolarismo che ci ha dato vent’anni di berlusconismo, rispetto a cui egli si pone in qualche modo come continuatore quando coltiva l’illusione dell’uomo solo al comando. La stessa sua proposta, irricevibile a Costituzione vigente, di una legge elettorale nazionale ricalcata su quella dei comuni, mira a consolidare uno stile demagogico e populista di rapporto con l’elettorato.

Inoltre, la possibilità di una grande visibilità mediatica usata ad evocare un sogno senza un contenuto preciso, nasconde alle masse la vera natura neo-conservatrice del progetto del sindaco di Firenze. Ed è questo elemento a rendere il bipolarismo propugnato da Renzi una gabbia per tutti coloro che intendono costruire un’alternativa riformatrice al pensiero unico responsabile dell’attuale crisi. Infatti, l’ex-rottamatore appare neoliberista in economia, assai vicino ai grandi poteri della finanza speculativa internazionale, e pericolosamente vicino al mondo dei neo-cons americani, a personaggi come Michael Leeden, la cui fama pare non gli derivi dall’essere un operatore di pace.

Si può essere buoni amici degli Usa, anche consigliandoli ad evitare errori, come hanno dimostrato sul caso della Siria Enrico Letta ed Emma Bonino, senza rischiare di rendere il Paese succube dei poteri finanziari e dei circoli più reazionari come i neocons.

Renzi invece è in debito con coloro che hanno contribuito alla sua ascesa. E se il centro sinistra lo proporrà come guida, assisteremo al paradosso che il campione dell’assetto bipolare sarà colui che lo rende nei fatti impraticabile per manifesta assenza di una alternativa alla destra.

I rimedi a questa possibile deriva ci sono, ma serve la libertà prenderli in considerazione ed il coraggio di chiudere definitivamente l’esperienza fallimentare della seconda repubblica per aprire una nuova stagione politica all’altezza dell’enormità dei problemi economici e sociali che abbiamo davanti.

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