Alcuni punti fermi per costruire una proposta su legge elettorale e riforme istituzionali

Il lavoro è senza ombra di dubbio la vera e principale emergenza del Paese. Compito della politica è quello di tradurre tale prospettiva in un progetto di società. Perché ciò avvenga occorre innanzitutto un preciso programma politico ma nel contempo occorre anche che il meccanismo della rappresentanza sociale e politica non si inceppi. Se in questi decenni il punto di vista di pochi ha potuto imporsi in modo così consistente sull’interesse dei lavoratori e dei popoli, ciò è potuto accadere anche a causa di un difetto della rappresentanza, che ha fatto sì che le classi medie, pur maggioritarie sul piano dei numeri, abbiano visto precipitare la loro influenza politica di fronte a chi le sopravanzava sul piano dei mezzi.

Il dibattito sulla legge elettorale e sulle riforme istituzionali nel nostro Paese va visto allora in funzione di un recupero di un punto di vista popolare, legato agli interessi dei ceti lavoratori, nella determinazione delle scelte politiche cruciali e strategiche, che per troppo tempo sono state invece preconfezionate in pensatoi, a volte anche di altissimo livello tecnico, ma irrimediabilmente condizionate agli interessi delle élites loro committenti. In questo senso si tratta di un tema non da addetti ai lavori della politica ma che suscita l’attenzione anche delle organizzazioni sociali, sfidandole ad una loro peculiare capacità di proposta.

Personalmente penso che nella prospettiva di cittadini e corpi sociali che auspicano una migliore capacità di governo e di rappresentanza delle istituzioni vi siano alcuni punti abbastanza definiti, al di là della molteplicità di soluzioni tecniche possibili per realizzarli.

Per prima cosa, questa moda, che è divenuta quasi una smania, di cambiamento della forma di governo in senso presidenziale, a ben vedere, appare quasi del tutto infondata. In politica ci sono degli equilibri istituzionali che possono evolvere nel tempo. Lo dimostra il ruolo crescente assunto dal Quirinale, almeno a partire dalla presidenza Pertini, passando per quelle di Cossiga o di Scalfaro, per arrivare al ruolo inedito che per una serie di circostanze ha assunto la presidenza di Napolitano, soprattutto a partire dalla costituzione del governo Monti ad oggi. Molto di più di un ruolo di garante, oserei dire un qualcosa che si avvicina ai poteri del presidente francese quando il governo è espressione della stessa parte politica dell’inquilino dell’Eliseo. Ebbene se tutto ciò è potuto accadere, allora che necessità abbiamo di modificare la Costituzione? In realtà sono altre le riforme sulle quali occorrerebbe concentrarsi. Da un ponderato superamento del bicameralismo perfetto, vincendo le resistenze alla trasformazione del Senato in una camera delle autonomie locali, al rafforzamento dei poteri del primo ministro, all’introduzione della sfiducia costruttiva, per scongiurare crisi di governo al buio, senza che si sia profilata una alternativa.

Un secondo punto irrinunciabile riguarda, a mio avviso, la riforma dei partiti nel senso previsto dall’art.49 della Costituzione. Occorre trovare un equilibrio diverso da quello visto dall’origine della Repubblica ad oggi, tra il diritto di qualsiasi forma di organizzazione politica a concorrere alle elezioni, senza rischiare di discriminare le nuove esperienze che possono sorgere e che qualche volta sono di stimolo al cambiamento, con il diritto dei cittadini ad avere delle formazioni politiche, una volta consolidate con il voto e la rappresentanza istituzionale, nelle quali siano garantite la democrazia interna e la trasparenza dei bilanci. Le degenerazioni cui abbiamo assistito (partiti personali e familistici, partiti azienda, ecc.) dovrebbero costituire un grande stimolo a questo tipo di riforma della politica.

In terzo luogo (tralasciando il tema del riordino e della razionalizzazione degli Enti Locali, che per la sua complessità merita un discorso a parte) vi è la questione legata alla legge elettorale sulla quale si ravvisano due generi di esigenze. La prima è costituita dalla necessità assoluta di evitare di tornare al voto con l’attuale legge elettorale che nega la possibilità di scelta dei candidati da parte degli elettori e presenta l’oggettiva forzatura di un premio di maggioranza che non trova riscontro in nessun altra democrazia occidentale. La seconda esigenza è quella di evitare soluzioni che possano rischiare di stravolgere l’attuale assetto costituzionale. Per questo motivo, a Costituzione vigente, appare neanche da potersi prendere in considerazione l’ipotesi che ciclicamente riemerge nel dibattito politico, di una legge elettorale nazionale che ricalchi quella il vigore per i comuni. Questo comporterebbe infatti l’elezione contestuale del capo dell’esecutivo e del parlamento, che scardina la distinzione dei poteri. Ed è la ragione per cui nei sistemi democratici, non plebiscitari, che prevedono l’elezione diretta del capo dell’esecutivo, le elezioni parlamentari sono rigorosamente distaccate nel tempo da quelle presidenziali.

Certo non si dà un sistema elettorale immune da difetti. Dal doppio turno, all’uninominale secco, al proporzionale, ogni sistema presenta pregi ed inconvenienti. Ma quello che si può dire è che al Paese serva una duplice iniziativa. Intanto occorre superare quell’usurpazione dei poteri del corpo elettorale rappresentata dalle liste bloccate. Ed insieme andrà trovato un rimedio ai limiti ed alle rigidità emerse nello pseudo-bipolarismo dell’ormai esaurita esperienza della seconda repubblica. Negli ultimi vent’anni si è assistito ad una polarizzazione muscolare quanto artificiale delle forze politiche in schieramenti che trovavano la loro ragion d’essere soprattutto nella contrapposizione agli avversari. Ciò è successo non solo per la profonda crisi dei partiti ma anche per l’oggettiva complessità del sistema politico italiano a cui si è voluto applicare uno schematismo politologico che collide con la realtà dei fatti. Qualunque sia la scelta per la riforma elettorale, occorre che sia ispirata al buon senso, vale a dire capace di assicurare adeguata rappresentanza ai ceti popolari e lavoratori e non di restringere il loro consenso verso due sole opzioni che alla fine rischiano di essere come due facce della stessa medaglia, di un gioco politico ormai largamente monopolizzato dai rappresentanti di quel dieci per cento più ricco della popolazione.

Per queste ragioni, chi ritiene di avere radicamento sociale e una concezione popolare della politica non può accontentarsi di stare a guardare e criticare. È il tempo delle proposte.

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