Guardare alla storia “dalla fine del mondo”

La visita di Papa Francesco a Lampedusa è stata definita storica, e forse per questa volta l’aggettivo non è sprecato. In quell’avamposto d’Europa il Papa argentino è andato non, come ha scritto con scarso discernimento qualcuno, per “benedire i clandestini”, ma per testimoniare che la carità cristiana si esercita in primo luogo verso i più deboli, verso i disperati, verso i “dannati della Terra” che si affollano alle porte del Nord del mondo per inseguire le briciole di un benessere ormai in declino anche nelle nostre terre,ma sempre preferibile alla nera miseria dei loro luoghi di origine.

Ha ragione il giornalista Giorgio Bernardelli quando scrive che Francesco è venuto “dalla fine del mondo”, come ebbe a dire nel suo primo saluto all’Urbe e all’Orbe dalla loggia di San Pietro , non solo e non tanto per le sue origini sudamericane, ma perché costantemente ci ricorda il giudizio ultimo, quello prefigurato dal Vangelo di Matteo, in cui la salvezza o la dannazione non saranno determinate dai discorsi teologici o dal potere esercitato, ma dall’aver dato da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, dall’aver visitato i prigionieri, curato i malati e vestito gli ignudi.

Il senso penitenziale che Papa Francesco ha voluto dare alla sua visita suona come una richiesta di perdono per un duplice motivo: il primo, il più immediato, deriva dall’aver lasciato naufragare nell’indifferenza prima che nel mare le tragedie epocali di uomini e donne trattate come animali o come numeri prima da carnefici prima di scrupoli e poi da una burocrazia cieca e fredda. Il secondo, il più radicale, è quello di aver permesso che la globalizzazione dell’economia di mercato, di quello che Luciano Gallino ha giustamente definito il “finanzcapitalismo”, diventasse occasione di miseria e di spoliazione per interi continenti, costringendo molte persone a lasciare il loro Paese per cercare altrove di che sostentare se stessi e le proprie famiglie.

E’ lucida l’analisi del Pontefice, per nulla pauperistica, e pur muovendo da preoccupazioni eminentemente religiose – come il drammatico ricordo delle parole che Dio rivolge a Caino, ed in verità a noi tutti, “dov’è tuo fratello?”- è uno stimolo alle nostre responsabilità politiche e sociali, quasi un invito ai credenti impegnati nelle diverse attività mondane affinché riscoprano il senso della loro ispirazione religiosa al di là di ogni esigenza di mettersi addosso delle etichette, per andare al cuore dell’insegnamento sociale della Chiesa, alla sua radice evangelica.

In questo senso, appaiono abbastanza stonate certe prese di distanza che, non osando attaccare direttamente il Papa, preferiscono delineare il campo di ciò che compete alla laicità della politica e di ciò che invece attiene alla predicazione religiosa. A parte che in genere questi appelli vengono da persone che in passato avevano ben altro atteggiamento verso tutto ciò che veniva dal Soglio pontificio – a significare la strumentalità che in genere segna i rapporti fra un certo tipo di politica e le vicende religiose- crediamo che una volta di più l’incomprensione derivi dal fatto che la fede condiziona tutta la vicenda degli esseri umani ed esprime implicitamente o implicitamente un giudizio sulle loro azioni. Lo diceva lo stesso cardinale Bergoglio nel libro scritto a quattro mani con l’amico rabbino di Buenos Aires: “come sacerdote annuncio i valori, i laici facciano la loro parte”.

E’chiaro che chi si sente giudicato dall’osservanza o meno dei valori reagisce di conseguenza: ci pare però di poter dire che mai come adesso a nessuno è data facoltà di rivendicare unilateralmente per sé la qualifica di credente impegnato in politica, mentre invece è sull’esempio personale e di gruppo che verranno valutate le azioni di persone, partiti ed associazioni. Andare al cuore delle cose, questo ci ha raccomandato di fare il Papa a Lampedusa, guardando in primo luogo ai poveri, ai deboli, agli sfruttati, ed orientando su di essi la nostra bussola morale, e le nostre scelte concrete.

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