Ripensando alla nazionalizzazione dell’energia elettrica per immaginare un nuovo ruolo pubblico

 

Nelle settimane scorse è passato piuttosto sotto silenzio il cinquantesimo anniversario della nazionalizzazione dell’energia elettrica. Con la legge del 6 dicembre 1962 venne applicato, per la prima – ed unica – volta nella storia repubblicana, l’art. 43 della Costituzione che prevede la possibilità di “trasferire, mediante indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.

Una vicenda complessa quella dell’elettricità pubblica, dai molteplici risvolti economici, politici e sociali, da collocarsi in un’epoca nella quale le società elettriche private avevano assunto una posizione di oligopolio nello scacchiere industriale italiano, dominando a piacimento l’offerta rispetto ad una domanda sempre crescente di energia. A spartirsi questa lucrosa torta di sovrapprofitti erano soprattutto alcune imprese capofila che si dividevano geograficamente la penisola. C’erano la Sip in Piemonte e Valle d’Aosta; la Edison in Lombardia, Emilia e Liguria; la Sade nelle Tre Venezie; la Società romana di elettricità (Sre) nella capitale e la Società meridionale di elettricità (Sme) nel Mezzogiorno.

Ci volle un anno e mezzo per conglobare le società più importanti, sviluppando tutta una serie di interconnessioni nella rete nazionale che consentì all’Italia di avviare un notevole miglioramento della propria situazione energetica. Ripensando all’entusiasmo di allora, in un’epoca contrassegnata da un mai più eguagliato boom economico, certe ottimistiche previsioni forse si rivelarono ingiustificate. E’ però indubbio che la nazionalizzazione dell’energia elettrica abbia segnato un’importante tappa per lo sviluppo della nostra economia.

Per questo c’è da chiedersi se dopo questi ultimi decenni contrassegnati dall’ubriacatura liberista, non sia giunto il momento di fare qualche riflessione un po’ diversa. Tornando cioè a valorizzare un certo sostegno pubblico all’economica magari rimettendo in campo, anche lo strumento offerto dall’art. 43 Cost. Ad esempio, esso potrebbe rivelarsi utile all’Ilva di Taranto ove pare evidente che la famiglia Riva non dispone delle risorse necessarie alla bonifica del sito, presupposto per riprendere in pieno l’attività produttiva nel doveroso rispetto della salute e dell’ambiente. Magari neppure questa è davvero l’opzione risolutiva; ma perché scartarla a priori? Perché non metterla seriamente sul tappeto?

In fondo la vicina Francia ci ha recentemente mostrato che la semplice ipotesi di parziale nazionalizzazione ha indotto il gigante dell’acciaio Mittal-Arcelor a soprassedere sulla chiusura di un sito. Per non parlare poi dell’intervento statale nell’industria automobilistica americana che ha salvato l’intero comparto con una profonda ristrutturazione produttiva.

Un più incisivo ruolo dello Stato serve eccome. E del resto nel nostro Paese non è che i privati, salvo rare eccezioni, abbiano particolarmente brillato. Tutt’altro. In un paio di decenni, senza i grandi assi delle politiche pubbliche, abbiamo abbandonato settori produttivi cruciali come la farmaceutica, la chimica e l’informatica. Sarebbe dunque il caso di aprire un confronto su questi temi e tornare a discutere di politiche industriali, di sostegno pubblico dell’iniziativa privata, di modernizzazione del Paese. Senza velleità neostataliste ma neppure riponendo cieca fiducia nelle virtù taumaturgiche del mercato, pensando che questo, da solo, possa risolvere ogni cosa.

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