Cosa può voler dire oggi cattolicesimo democratico?

Pubblichiamo ampi stralci della relazione tenuta alla presentazione del Documento dei Cattolici democratici di Milano il 30 novembre 2012.

Viviamo nella stagione delle primarie. E il centro-sinistra ne ha moltiplicato con successo le edizioni e le forme. Così che anche l’area del populismo berlusconiano, nel momento del suo massimo dissesto, ha guardato ad esse con interesse sincero, pur dovendo riconoscere alla fine che per la salute dissestata dell’area berlusconiana l’operazione era disperata e addirittura sconsigliabile. È sintomatico ed è positivo che sia così. Le primarie hanno oramai ottenuto un loro statuto di cittadinanza nella politica italiana, dove partiti costituzionalmente europei praticano da sei anni un costume tradizionalmente americano. Non mancano ovviamente problemi di traduzione e di trapianto, ma le primarie sono entrate oramai nella mentalità degli italiani. In mancanza di partiti e di programmi affidabili esse appaiono ai nostri concittadini come l’ultima spiaggia della partecipazione politica, e le residue speranze di una democrazia da anni in transizione finiscono per coagularsi intorno ad esse.

Così le primarie sono diventate il mito fondativo che ha surrogato, fino ad ora, la mancanza o la debolezza di manifesti politici, di progetti di lunga lena e alto volo: quelli attraverso i quali un partito – come ricordava Michels – si presenta al mondo. Dunque, le primarie come salvagente. Le primarie come molo dal quale riprendere il mare aperto di una politica indecifrabile ed assente. Ma le primarie, davvero provvidenziali, da sole non possono bastare: esse sono un comportamento collettivo e il loro senso non può che discendere da un’idea di democrazia e da un progetto politico. Il rischio perciò di inflazionarne l’uso e la funzione è chiaramente presente e deve essere decisamente evitato.

Il cattolicesimo politico, nel largo ventaglio delle sue posizioni, chiusa oramai da un ventennio l’esperienza della Democrazia Cristiana, ha visto il succedersi di una serie di certificati di morte. Mentre ha continuato a svilupparsi la presenza di un “mondo cattolico” in grado invece di rinnovarsi e riproporsi nell’ambito della società civile.

Se il cattolicesimo politico, complessivamente considerato, è morto, il cattolicesimo democratico è tuttavia morto di parto… Una condizione che ha prodotto esperienze tuttora significative e operanti, e in attesa di essere ricollegate.

Volgendo il discorso in positivo il quotidiano “Avvenire” ha presentato il secondo convegno di Todi come vitamine per la vera Italia in quanto avente come attori dei laici cristiani coinvolti nel dibattito pubblico a pieno titolo, né assenti né mediocri, dando seguito all’auspicio del cardinale Bagnasco che si era augurato di veder sorgere quanto prima una “nuova leva di cattolici impegnati in politica”, “capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile”. Sulla scia di prese di posizione che hanno esaltato la testimonianza rispetto alla riflessione tra prospettive differenti e tutte le legittime, ritenendo probabilmente conclusa la stagione del dissenso e del cattolicesimo critico. Un gettare il cuore e il cappello al di là dell’ostacolo di contrapposizioni interne, tutte ponderate e ovviamente legittime. Esse infatti vivono il lascito conciliare di un pluralismo ormai consolidato, con la reciproca consegna, per coerenza al principio, di difendere, in nome del pluralismo, il pluralismo dell’altro. Scontando all’interno della chiesa il logoramento dei canali della comunicazione sia verticale sia orizzontale, e una qualche pigrizia spirituale figlia delle delusioni patite nella ricerca di una testimonianza e di esperienze autenticamente evangeliche. Ha fatto eccezione il fondo “famiglia e lavoro” voluto dal cardinale Tettamanzi ed ereditato e rilanciato proprio in questi giorni dal cardinale Angelo Scola.

Il cattolicesimo democratico fa i conti con questa circostanza storica. È cioè chiamato a leggere i “segni dei tempi” della presente stagione dentro l’itinerario della democrazia italiana. E i cinquant’anni di distanza dalla celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II ripropongono una lettura della presenza dei cristiani nello spazio pubblico alla luce del grande evento voluto da papa Giovanni XXIII. Con il concilio infatti la Chiesa cattolica fa pace con la modernità al tramonto. Una Chiesa cattolica finalmente amica della politica, al punto da definirla come “la più alta forma della carità”, e di provare ad uscire definitivamente dalla sindrome di Costantino. Perché la “Chiesa dei poveri” presentata in concilio dal cardinale Lercaro vuol dire cessare di viversi come instrumentum regni.

La luce del concilio cinquant’anni fa irradiava i grandi soggetti collettivi nel loro storico sviluppo. Ma l’inarrestabilità e l’imprevedibilità del processo storico hanno drasticamente cambiato i segni dei tempi così come venivano letti dall’enciclica “Pacem in terris”. Il discorso sulla recezione del concilio è quindi in buona misura interno alla cultura del cattolicesimo democratico e ne segna le metamorfosi e gli esiti. Le visioni di Maritain e Mounier ottengono l’assenso e il plauso dei padri conciliari, mentre una delle tante svolte a “U” della storia trova più pronte le chiese lontane dal vecchio continente che, elaborando tra difficoltà e contraddizioni le “teologie della liberazione”, prendono il largo dalle visioni dell’umanesimo integrale per riproporre drammaticamente il rapporto tra il Vangelo e la politica: l’ortoprassi – si diceva – al posto dell’ortodossia.

Cosa può voler dire oggi cattolicesimo democratico? Che cosa è nei confronti della chiesa il cattolicesimo democratico? Una esperienza di laicità condotta dai credenti a tutti i livelli, meritevole di una istruttoria adeguata per intenderne insieme le difficoltà e le potenzialità. In una stagione nella quale nei partiti non ti chiedono cosa pensi, ma con chi stai, il tema diventa necessariamente quello dei contenuti. E il dilemma è stato posto da padre Costa sul numero di ottobre di “Aggiornamenti Sociali” quando si è chiesto se sia meglio un partito cristiano in cui la “differenza” può rendersi visibile, o partecipare con altri in partiti nei quali i cristiani si devono confrontare con altre visioni del mondo, rischiando di risultare invisibili se non inefficaci. Un dilemma non nuovo e non da poco. Molti sono gli espedienti ai quali la politica italiana è ricorsa inseguendo governabilità e lo stesso governo tecnico può apparire lo sforzo titanico e disperato del Quirinale di mettere in campo il governo dei migliori col parlamento dei peggiori.

La visione del cattolicesimo democratico è del resto una categoria molto articolata, sorretta da un giusto aggiornamento e viene dopo una stagione nella quale i cattolici democratici sono stati costretti partiticamente ed elettoralmente a una sorta di nicodemismo pur di salvare il salvabile. Anche in questo caso i cattolici democratici credevano di essere in transizione e si sono trovati in diaspora.

Il cattolicesimo democratico è anche chiamato recuperare la sua radice ecclesiale. Guai se si percepisce la presenza dei cattolici in politica come di gente che ha poco da dare e molto da chiedere. Tutto ciò è preliminare al tentativo di dare soggettività nuova al cattolicesimo democratico, lasciando alle spalle tentazioni ricorrenti quali quelle di creare un partito di tutti i cattolici (operazione oramai palesemente impossibile e giudicata tale dalla stessa gerarchia ecclesiastica) o un’opa sul centrodestra. Il cattolicesimo democratico infatti, volente o nolente, è chiamato ad operare a guisa di fermento e non di corpo organico. Resta comunque palese, quasi un continuum, il suo carattere popolare, e da qui la sfida possibile sulla sua capacità di ritessere la rappresentanza, evitando ovviamente di fare discorsi soltanto fra i garantiti. Tutte buone ragioni per affermare che siamo a un crocevia dove si pone un problema di vita o di morte per il cattolicesimo democratico. La scommessa è fare emergere quel che giace, convinti che c’è di più di quel che appare e che si pensa.

Negli ultimi 17 anni abbiamo assistito ai riti e alle prevaricazioni di quella che le analisi più avvertite hanno letto come una partitocrazia senza partiti: un massimo di potere concentrato ai vertici, cui corrispondeva un minimo di partecipazione alla base. Un minimo ulteriormente ridotto da una legge elettorale che il latino maccheronico di porcellum non riesce ad ingentilire.

I gruppi dirigenti, continuamente pungolati dal presidente Giorgio Napolitano, devono assolutamente uscire da questa condizione, pur sapendo che l’inerzia delle rendite di posizione demotiva le assemblee parlamentari a legiferare contro se stesse.

Eppure da tempo qualcosa si muove. Se le primarie sono un comportamento collettivo che ricarica la politica nel momento di una bassa preoccupane della sua credibilità, la politica non cessa tuttavia di essere un pensiero collettivo, e un’organizzazione di questo pensiero tenuta insieme da relazioni comunitarie che non di rado alludono all’amicizia. Qui giace il problema del Paese e anche il nostro. La crisi non è superabile senza il governo della politica, ma questa politica si è dimostrata incapace di governo. E i comportamenti collettivi, soprattutto quelli che risultano credibili e praticabili agli occhi dei cittadini, e quindi in grado di interpretare la fase e di condurci oltre la transizione infinita, hanno bisogno di contenuti e di ideali condivisi: una visione del futuro la cui costruzione appaia possibile a partire dal presente. Può parere una provocazione nei giorni che attraversiamo, ma non stiamo andando per profeti: siamo dentro la tradizione più classica del pensiero politico europeo ed occidentale.

È a questo punto che l’esigenza di rimettere a tema il rapporto tra fede e politica non può essere storicamente evitata. A mezzo secolo dalla celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, quell’evento storico non risulta per noi un elemento della retorica cattolica, ma l’occasione per ripensare, nella complessità della tradizione, la recezione del Concilio, una recezione che non concerne soltanto i documenti, ma anche i soggetti che hanno vissuto nella chiesa il passaggio dall’epoca della cristianità a quella di un mondo secolare ed “adulto”.

La città di Milano, la grande comunità cristiana che la abita sono impegnate in esperimenti dove la ricerca di risposte concrete si accompagna allo studio dei problemi che sostengono le speranze del futuro mentre riscoprono le proprie lunghe radici. È un problema comune a tutte le culture. Ognuna chiamata a fare la propria parte perché la città dell’uomo sognata da Giuseppe Lazzati cresca nel quotidiano con una dimensione di cittadinanza inedita. È stato il cardinale Martini a ricordarci, sul fondamento della Scrittura (e in compagnia di Max Weber), che la politica, senza sbilanciarsi in promesse che non è in grado di mantenere, è a misura delle cose impossibili. Per le possibili dovrebbe bastare l’amministrazione.

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