Liberalizzazioni: fardello ideologico o stimolo allo sviluppo economico e sociale?

Il tema delle liberalizzazioni chiama in causa una visione generale dell’economia, della società, della politica. Si tratta di un tema centrale e decisivo anche per quel nuovo riformismo cattolico da elaborare per dare un contributo, da questa prospettiva, all’uscita dall’attuale grande crisi economica e sociale.

Innanzitutto, cosa si intende per liberalizzazioni? La questione va posta a partire dal piano teorico, e ideologico – sì perché le liberalizzazioni, allo stesso modo del mai abbastanza deprecabile collettivismo socialista, sono un’ideologia, non una necessità della politica o dell’economia – e poi cercare di coglierne i risvolti pratici, sulle nostre vite e sui nostri territori.

Intanto si può osservare che liberalizzazioni e privatizzazioni non sono sinonimi dal punto di vista concettuale. Privatizzare significa solo vendere a degli acquirenti privati ciò che era pubblico, mentre liberalizzare significa, sempre in teoria, rimuovere tutte quelle barriere di ordine fiscale, regolamentare, in ultima analisi, di ordine politico che limitano la concorrenza e l’estensione del libero mercato.

Questo dal punto di vista concettuale. Ma sul piano pratico, in Italia si può dire che si è iniziato a parlare di liberalizzazioni al posto di privatizzazioni a metà degli anni Novanta, quando con delle manovre speculative monetarie l’Italia fu costretta a svendere una parte consistente della sua industria pubblica. Come ha osservato Luciano Gallino, in “La scomparsa dell’Italia industriale”, “politici e manager senza visione del futuro hanno trasformato l’Italia in una colonia industriale”. Tra le cause del depauperamento del patrimonio industriale del Paese non si possono tralasciare le massicce privatizzazioni che si sono susseguite negli ultimi vent’anni, molte delle quali si sono rivelate degli ottimi affari per la grande finanza internazionale ed hanno diminuito la “massa critica” del sistema industriale nazionale, comportando una dispersione del patrimonio cognitivo di aziende ad alta tecnologia, spesso acquisito dalle dirette concorrenti delle aziende italiane (emblematico è il caso della Nuovo Pignone, gioiello dell’Eni, con avanzatissima ricerca interna, maggior produttore mondiale nel campo delle turbine e dei compressori per impianti petroliferi, venduta a prezzo di saldo al suo concorrente americano General Electric nel 1994), ed una presa di controllo di una parte significativa della vita economica italiana, da parte di operatori stranieri.

Secondo il Centro Studi di Confindustria, il processo italiano di dismissione di assets pubblici è stato tra i più ampi in Europa ed avrebbe superato per dimensione le privatizzazioni della signora Thatcher in Gran Bretagna. Negli anni Novanta, quindi, in Italia era diventato assai impopolare parlare di privatizzazioni, e così sul piano propagandistico e comunicativo si iniziò a parlare di liberalizzazioni, sebbene le due cose non siano sinonimi.

Se poi volessimo mettere in relazione le liberalizzazioni allo sviluppo del Paese dal dopoguerra ad oggi, credo che si potrebbe dire che gli anni della prima repubblica, che pure è franata miseramente sulla questione morale, siano stati gli anni di uno straordinario sviluppo attuato attraverso un massiccio e sistematico intervento dello stato in economia, una estensione dello stato sociale senza precedenti, una politica di pace che ha significato l’avvio del progetto europeista e la non partecipazione ad alcuna missione bellica internazionale per cinquanta lunghi anni.

Mentre gli anni delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni corrispondono agli anni della cosiddetta seconda repubblica: lo sviluppo economico è rallentato, il livello di vita della classe media è drasticamente calato, i lavoratori e le famiglie si stanno impoverendo, il welfare viene tagliato ben oltre quanto avrebbe richiesto la correzione di alcune sue distorsioni, e l’Italia ha partecipato praticamente a tutti i conflitti internazionali della coalizione occidentale: dalla prima guerra del Golfo persico nel 1991 alla Libia, l’anno scorso, nonostante l’articolo 11 della Costituzione.

Dunque, il tema delle liberalizzazioni entra di prepotenza nel dibattito pubblico negli anni Novanta dopo la fine del blocco comunista. Questo è importante tenerlo presente. Da allora infatti la finanza anglo-americana ha pensato di essere padrona del mondo e che tutti i Paesi potessero venire sottoposti ad un regime di prelievo della ricchezza nazionale attraverso la speculazione finanziaria, così come era toccato ai Paesi di quello che una volta si chiamava “terzo mondo”. Non c’era più bisogno del compromesso tra capitalismo e democrazia. Il capitale poteva alzare l’asticella pretendendo per sé una maggiore quota della ricchezza prodotta, da ottenere attraverso il taglio dei salari e dello stato sociale. Infatti questo è il modello che si è esteso e che sta bloccando molto seriamente l’economia: i ricchissimi che diventano sempre più ricchi, e in tal modo sottraggono colossali risorse dal circuito economico, ed i lavoratori vengono sospinti se non al minimo vitale, di sicuro al livellamento verso il basso di salari e diritti.

Cosa c’entra questo con il tema delle liberalizzazioni? C’entra in quanto le liberalizzazioni esprimono una visione dell’economia. Esse interpretano l’aspirazione a scardinare ogni forma di regolazione e di tutela dei patrimoni pubblici, privati, delle famiglie, delle aziende, per farli divenire, in ultima analisi, oggetto di profitti per i fondi speculativi internazionali. In questo senso credo si possa dire che le liberalizzazioni esprimano una ideologia. Infatti, nel mondo globalizzato le economie più in salute, quelle emergenti ed in maggiore crescita sono quelle a direzione statale, con forti elementi di protezionismo, (più esattamente di colbertismo, cioè di asimmetria tra quanto si chiede all’esterno e quanto si attua all’interno), e di significativi livelli di chiusura del mercato come la Cina, il Brasile, la Russia ed altri.

Si potrebbero fare molti esempi, che dimostrano come le liberalizzazioni costituiscano più un fardello ideologico anziché uno stimolo allo sviluppo economico e sociale. Mi limito a quelli più significativi.

Qualche anno fa, in piena crisi finanziaria è entrata in vigore la MIFID, la direttiva europea sui mercati degli strumenti finanziari, improntata ad una estrema liberalizzazione degli operatori finanziari, permettendo in sostanza a tutti (banche, assicurazioni, poste, generiche società finanziarie) di fare tutto. Ora, tutti sanno che il primo provvedimento da prendere per limitare la speculazione finanziaria sarebbe stato quello di imporre una drastica separazione tra banche d’affari e banche di risparmio, vietando categoricamente a queste ultime di poter rischiare i risparmi delle famiglie su strumenti finanziari a vocazione speculativa. Questo a me pare un chiarissimo esempio di come in questi anni l’indottrinamento puramente ideologico sia prevalso sulla scelta di soluzioni di buon senso a tutela dei nostri risparmi, della solidità delle banche e del loro dovere di fare da volano allo sviluppo del territorio.

Gli ideologi delle liberalizzazioni pongono una distinzione tra liberalizzazioni in senso lato e liberalizzazioni in senso stretto.

Tra le liberalizzazioni in senso lato sono comprese quelle della pubblica amministrazione e quella del lavoro. Ora, dopo la sperimentazione che abbiamo avuto in Italia della liberalizzazione del lavoro grazie al pacchetto Treu e alla legge 30 (legge Biagi), per non parlare della riforma dell’attuale governo, abbiamo potuto constatare che ciò non ha contribuito né all’occupazione, né tantomeno allo sviluppo. Abbiamo avuto solo più precarietà, cioè una retrocessione delle figure professionali più deboli da dipendenti a precari, a parasubordinati con un risparmio effimero per le aziende in quanto nessuna delle nostre produzioni, in assenza di efficaci barriere doganali a difesa della dignità del lavoro, non è più in grado di competere con il costo del lavoro dei Paesi asiatici. Dobbiamo essere consapevoli che il non plus ultra della modernità in fatto di organizzazione del lavoro sono le fabbriche-dormitorio cinesi, nelle quali i lavoratori vengono rapidamente “internati” anche per mesi, per i picchi di lavoro, ed altrettanto rapidamente espulsi quando non servono. Un modello al quale ancora i lavoratori occidentali non si adattano ma che è già stato proposto, senza successo al momento, da una nota azienda tecnologica americana per gli Stati Uniti.

E sempre a proposito di liberalizzazioni va ricordato che esse sono applicabili anche alle carceri. Il modello che si sta diffondendo è infatti quello delle carceri gestite da privati, che riducono all’inverosimile i costi sulla pelle dei detenuti, che non di rado vengono obbligati a lavori i cui profitti vanno ai proprietari delle carceri. Andando a spulciare il decreto Monti sulle liberalizzazioni si trova un simile progetto anche all’art.43, nel quale viene previsto il finanziamento a progetto per la realizzazione di infrastrutture carcerarie da parte di soggetti privati i quali ammortizzerebbero i costi con la gestione delle carceri. A mio modo di vedere sono cose che farebbero rivoltare nella tomba il povero Cesare Beccaria, ma anche i giudici Falcone e Borsellino, visto che in tal modo si potrebbero verificare delle infiltrazioni mafiose persino nella gestione delle carceri.

Venendo alle liberalizzazioni in senso stretto, quelle che si applicano ai vari settori dell’economia, a mio parere, traspare da più parti lo sforzo di imporre una visione ideologica anche andando contro la logica delle cose, contro gli interessi della collettività e contro il bene comune.

Ad esempio si è molto enfatizzato lo sviluppo del cosiddetto “capitalismo delle reti”. Ma poco si è riflettuto sul fatto che esso non di rado ha significato la semplice sostituzione del ruolo del monopolista pubblico da parte di oligopoli privati nella gestione di rendite di posizione, attraverso la formazione di cartelli (come nel caso della telefonia o in quello del credito) che assicurano profitti certi, rischi minimi e riparo dalla concorrenza.

Così, mediamente le tariffe per gli utenti sono rimaste elevate e le reti, date in gestione ai privati, stentano a rinnovarsi (si pensi, ad esempio alla cattiva manutenzione di certe autostrade, all’arretratezza del Paese nello sviluppo dell’accesso veloce ad internet). Si sono visti casi di grandi aziende pubbliche privatizzate, comprate a debito, e pagate, in sostanza, vendendo il patrimonio dell’azienda acquisita da parte nei nuovi padroni, oppure introiti da pedaggi autostradali “investiti” in private acquisizioni di grandi territori della Patagonia: sono solo alcuni esempi che dimostrano il danno arrecato al sistema-Paese e il mancato contributo al rilancio della nostra economia causato dalle liberalizzazioni.

Pensiamo a quanti sprechi di risorse e quanto cattivo funzionamento dei servizi abbia prodotto l’ideologia delle liberalizzazioni. Intanto si è pensato che si possa far entrare il mercato in tutte le cose, dimenticando l’esistenza di quelli che un economista liberale come Luigi Einaudi chiamava i monopoli naturali. Per furore ideologico si sono liberalizzati treni e metropolitane, come a Londra, salvo poi accorgersi che era un pasticcio, che per attraversare la città ci volevano quattro diversi biglietti, e si è fatta marcia indietro. Persino l’ex direttore dell’Economist, Bill Emmott, quello che scrisse a suo tempo che Berlusconi era inadatto a governare l’Italia, ha riconosciuto, commentando gli esiti fallimentari della liberalizzazione della metropolitana di Londra, che le liberalizzazioni non si devono fare per credo ideologico e indiscriminatamente ma solo quando servono e laddove si rivelano davvero utili alla collettività.

Sempre sulla liberalizzazioni delle reti, il governo Monti intende attuare la liberalizzazione della rete di distribuzione del gas detenuta da Snam del gruppo Eni. Ora, tutti sanno che gli unici tra virgolette “privati” che intenderebbero acquisire questa infrastruttura sono l’algerina Sonatrach e la russa Gazprom, entrambe statali ed appartenenti a due nazioni da cui noi compriamo insieme i due terzi del nostro fabbisogno di gas. Siccome ciò risulterebbe dannoso per l’Italia perché gli algerini, o i russi una volta acquisita la rete del gas potrebbero fare a meno dell’intermediazione dell’Eni e vendere direttamente ai consumatori italiani, pur di salvare il “credo” della liberalizzazione i nostri governanti stanno valutando la possibilità di fare una finta dismissione della rete gas e di farla comprare alla Cassa depositi e prestiti, cioè il Tesoro il quale si rifarebbe sul contribuente per affrontare la spesa straordinaria. Giudicate voi, questa è saggezza o sudditanza ideologica?

Che cosa dire poi di un altro tema che tiene banco fra giuristi ed economisti che è quello della proliferazione delle Authority. Anche qui non per effettiva necessità ma per ragioni ideologiche. L’idea che sta al fondo è che per ogni segmento di economia “liberalizzato” vi debba essere una autorità garante, per i trasporti, le telecomunicazioni, l’energia, ecc. Ora, a parte il fatto che notoriamente chi occupa questi ruoli difficilmente risulta privo di interessi del segmento che dovrebbe regolare, infatti tutte queste autority manifestano una tendenza all’assopimento, rimane la questione dei costi. Ormai da molte parti si denuncia il fatto che una trentina di queste autorità sono troppe, anche in questo siamo i primi in Europa. Ogni authority è parametrata nelle indennità dei suoi componenti alla camera dei deputati, ha una sua struttura burocratica, sedi, auto blu. Quindi il primo problema è che queste authority sono troppe. Il secondo problema è che sono in gran parte inutili, sia perchè sono contigue agli interessi che dovrebbero regolare (come ha scritto Giannini su Affari e Finanza si sono trasformate da “cani da guardia del potere in cani da salotto dei potenti”), sia perché non costituiscono altro che un doppione di poteri e competenze di cui già dispongono i ministeri competenti. Il disboscamento delle authority è dunque necessario per contenere i costi della pubblica amministrazione, per rendere più efficienti i ministeri.

Anche la tanto sventolata liberalizzazione degli orari dei negozi a ben vedere pone più problemi di quanti promette di risolverne. Perché per far ripartire l’economia occorre dare lavoro a tutti, dare più soldi in busta paga, frenare la diminuzione dei consumi delle famiglie. Se non c’è questo i negozi potrebbero stare aperti anche ventiquattro ore su ventiquattro e gli acquisti non crescono. Se c’è un calo delle vendite non è perché i negozi non stanno abbastanza aperti, ma perché le famiglie hanno sempre meno soldi da spendere. Ma prima di tutto c’è una considerazione di carattere etico che si impone, tanto più alla luce dell’Incontro Mondiale delle famiglie che ha avuto significativamente per tema “Famiglia, il lavoro e la festa”. Ogni volta che si entra in un esercizio commerciale di domenica e nei giorni festivi si diventa complici della negazione del diritto al riposo di quei lavoratori che sono costretti al lavoro festivo. Noi dovremmo riconoscere agli altri ciò che per noi è importante come i legami famigliari ed il riposo festivo.

Altra misura incomprensibile, se non all’interno di un’ottica ideologica, è quella dei taxisti. Il buon senso suggerirebbe di demandare ai sindaci la gestione di questa questione, trovando il giusto equilibrio tra tutela del lavoro e garanzia di un buon servizio. Non si vede un nesso credibile tra la deregolamentazione dei taxisti e la ripresa economica. In compenso si individua benissimo la ragione per la quale i poteri forti invocano la liberalizzazione dei taxisti: perché li vorrebbero trasformare tutti in lavoratori precari, facendo in modo che la gran parte dei profitti di quel settore non vada più ai taxisti e alle loro famiglie ma alle grandi multinazionali del settore. Un discorso in parte analogo vale per i farmacisti, un altro pezzo di ceto medio, dalla importantissima funzione sociale, che i grandi gruppi vorrebbero ridurre ad addetti della grande distribuzione.

Infine, ma non per ultimo, c’è l’impatto devastante delle liberalizzazioni delle aziende pubbliche sui bilanci degli enti locali. Si tratta di patrimoni che custodiscono il lavoro di generazioni, e che sono sempre serviti per riequilibrare al loro interno i servizi, facendo in modo che i servizi più redditizi finanziassero quelli in perdita, in modo da poter intervenire per ridurre le disuguaglianze tra i cittadini. Le aziende pubbliche si possono vendere una volta sola poi non rimarrà altro che la via dei tagli ai servizi sociali e dell’aumento delle tariffe e delle tasse locali. Ma questo significa veramente fare il bene della collettività?

La conclusione dunque qual è?

La linea da tenere dovrebbe essere quella non ideologica, non contraria a priori a scartare l’ipotesi della liberalizzazione laddove possa rivelarsi utile ed efficace. Si dovrebbe essere posti nella condizione di poter valutare caso per caso. Liberi da condizionamenti e da interessi. La realtà purtroppo è ben diversa. Perché fin che avremo una politica che abdica dalle sue responsabilità, e che dunque appare non solo troppo costosa ai cittadini, ma soprattutto priva di utilità, non si riuscirà a dare una risposta sull’unico piano a cui va data, quello politico. In assenza della politica comandano le banche, o per essere più precisi i detentori privati dei grandi fondi speculativi che oggi costringono gli stati e le banche centrali a cambiare i loro titoli spazzatura, per migliaia di miliardi, con soldi veri provenienti dalle tasse, dai tagli al verfare e dalla riduzione degli stipendi.

La politica deve recuperare ruolo e credibilità. Se così sarà si creeranno i presupposti per uscire dalla crisi e si potrà dare la risposta che merita alla ideologia delle liberalizzazioni: una risposta politica. Le liberalizzazioni sono il prodotto di un sistema di potere e di dominio della finanza anglo-americana, oggi profondamente in crisi, sull’orlo del precipizio molto di più di quanto lo sia la piccola Grecia. La risposta politica consiste, a mio avviso, nel prendere atto che gli interessi europei, dei Paesi dell’Euro soprattutto e Stati Uniti sono sempre più oggettivamente divergenti, al di là di quello che è e continuerà ad essere un consolidato e stretto rapporto di amicizia tra le due sponde dell’Atlantico. Innanzitutto per la moneta, perché la sola esistenza dell’Euro è una minaccia letale al Dollaro come moneta di riserva mondiale. Serve dunque una Europa più consapevole della propria autonomia sul piano economico, politico e militare, capace di mantenere buone relazioni con i tradizionali alleati americani ma di costruirne di altrettanto buone con la Russia, il Brasile e tutto quel novero di Paesi emergenti con cui instaurare dei rapporti commerciali nell’interesse delle rispettive economie e dei propri lavoratori e non per aumentare i profitti delle grandi banche d’affari straniere.

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