Il pannolone di Pontida

Non aiuta a capire il giornalismo che fa titoli a tutta pagina prendendo sul serio le sparate di Umberto Bossi. Ministeri, lo strappo di Bossi. Tre a Monza, uno Milano. E non basta…

Ho fatto il liceo a Monza e potete capire se non mi sia cara l’antica capitale della Brianza. Terza città per abitanti della Lombardia, maledetta già da Sant’Ambrogio che, narra la leggenda, se ne andò scuotendo la polvere dai calzari e pronunciando la famosa sentenza: “Sarete sempre una città di poveretti”. Non del tutto vero se nell’Ottocento Monza, quando prosperava l’industria del cappello, veniva chiamata la Manchester d’Italia. I Savoia ci venivano d’estate nella Villa da tutti chiamata Reale e costruita dagli austriaci. L’anarchico Gaetano Bresci, rientrato appositamente dagli Stati Uniti, vi uccise il “re buono” Umberto I davanti alla palestra Forti e Liberi, il 29 luglio 1900.

È pure vero che nel 1964, quando venne inaugurata la metropolitana milanese (linea rossa), furono i commercianti monzesi a non volerne il prolungamento per difendere i propri clienti dalle tentazioni di fare la spesa in corso Buenos Aires a Milano. E infatti ancora oggi la metropolitana a Monza non arriva…

Portare tre ministeri piuttosto che dodici a Monza infatti più che una boutade è una boiata. Ma solo se si prende la cosa sul serio e si immaginano architetti, restauratori, stilisti e urbanisti affaccendati per dare una sede degna ad antichi ministeri, la provocazione funziona. Mi sentirei soltanto – visto che ci siamo – di proporre la mia Sesto San Giovanni, ex vertice del triangolo industriale del Nord, per il ministero dell’Industria e magari Sant’Angelo Lodigiano per quello dell’Agricoltura… Ma se si inseguono le vocazioni produttive e localistiche il gioco risulta senza fine. La proposta assume invece il suo autentico significato se, paradossalmente ma non molto, usciamo dalla realtà per entrare nella fiction.

Bossi, il fondatore del più vecchio partito della cosiddetta Seconda Repubblica, è infatti anche un grande inventore e un genio dell’immagine. Ha inventato un movimento politico a partire da pervicaci localismi che praticano economicamente la globalizzazione mentre la odiano ideologicamente. S’è inventato una famiglia politica, cui ancorare la propria storia, con un esplicito riferimento alla vicenda dei Celti (peraltro ignota ai più). Ha creato simboli con grande fantasia e puntualità che gli hanno permesso di rendere emotivamente efficace il suo messaggio ancorché costruito con reperti arcaici e addirittura desueti. Se il genio mediatico di Silvio Berlusconi trova la propria celebrazione, oltre che nella fondazione di Forza Italia, nel format del Grande Fratello e di Saranno Famosi, il genio hollywoodiano di Umberto Bossi può ben tenere il passo con le ampolle riempite alle sorgenti del Monviso, il pellegrinaggio lungo il fiume Po, e, soprattutto, con il celebre pratone di Pontida dove non pochi secoli fa Alberto da Giussano fece giurare la Lega Lombarda.

Ed è su quel prato prospiciente l’abbazia che è andata in scena l’ultima fiction della Lega. Umberto Bossi, detto popolarescamente il Senatür, sa bene quanto il suo popolo scalpiti e voglia farla finita con la sequela berlusconiana dal momento che il Cavaliere appare inevitabilmente destinato al naufragio e molto realisticamente i leghisti non intendono affogare con lui. Quelli che si sfogano infatti on-line o ai microfoni di Radio Padania non nutrono alcun dubbio in proposito. Bossi lo sa e lo ha capito bene. Alla maniera di Joseph Strauss, il toro di Baviera, è rozzo nei modi e nel gergo, ma astuto e navigato politico. Conosce la situazione. Sa che i comuni, “soprattutto quelli virtuosi del Nord”, non sopportano più Palazzo Chigi e il suo longevo inquilino. Non ha bisogno dei sondaggi per registrare il malcontento dei giovani, dei piccoli imprenditori, di quello che proprio Tremonti chiamò quindici anni fa “il popolo delle partite Iva”; insomma, conosce la gravità della situazione, mentre, come purtroppo quasi tutto questo ceto politico, non gli riesce di trovare la porta d’uscita.

Il fido Tremonti del resto, lo stimato ministro del Tesoro, non avrà faticato molto a spiegargli che dopo il disastro della Grecia questo è il momento meno opportuno per allargare i cordoni della borsa. Bossi sa anche, sul piano strategico-tattico, che il rischio, dopo tanto commercio con il Cavaliere di Arcore, è quello di restare con il cerino in mano e lontano dal governo per una troppo lunga stagione. Infatti, l’Umberto – a differenza di Fausto Bertinotti che affondò il governo di Romano Prodi per le dimenticatissime 35 ore di lavoro la settimana – ha capito da tempo che gli riesce assai meglio di fare opposizione efficace all’interno del governo.

E’ in questo quadro, tutt’altro che indecifrabile, che al destro Bossi si è presentata la medesima domanda del sinistro Lenin: “Che fare”?

Bossi, s’è detto, non vuole restare con in mano il cerino, sa quanto siano ristretti se non inesistenti i margini di investimento e di spesa, e quindi ha deciso ancora una volta di affidarsi alla sua grande e sperimentata immaginazione mediatica. Così l’annuale e folcloristico appuntamento di Pontida s’è trasformato nel disperato tentativo di prendere tempo e ammansire il cosiddetto popolo leghista. E visto che i giovani leghisti col blog e la vecchia guardia della prima ora con l’invocazione di ritornare alle origini la stanno facendo da tempo fuori dal vaso, s’è inventato l’uso del pratone come grande pannolone assorbente. Recepire e ascoltare, o fingere di ascoltare, per contenere. L’Umberto come il Conte Zio del Manzoni. Lo ha detto il duro Castelli, intervistato sul campo, che il vertice della Lega ascolta i suoi e poi, tenendo conto dei vincoli della politica – che non sono pane per i denti di quelli che a Pontida mettono in piedi le impalcature del palcoscenico, si dissetano con abbondanti birre e si sciolgono in lacrime cantando con la mano sul cuore il verdiano Va pensiero – decide la linea tenendo conto delle compatibilità…

Bossi infatti è rimasto, a dispetto di una voce arrochita dalla malattia, l’unico flauto magico del centrodestra tuttora in funzione. Sa anche che le favole e le leggende finiscono il loro fascino quando suona l’ora del pasto. Sul pratone di Pontida ha alzato i toni per incoraggiare i suoi avendo chiara la scarsità della merenda. Ha aumentato i decibel della polemica trovando immediati interlocutori in Alemanno, sindaco di Roma ladrona, e nella Polverini, governatrice del Lazio, che, alla lor volta, non aspettavano altro. Ha perfino fatto distribuire, alla fine di un discorso che ha voluto precauzionalmente solitario, un foglio stampato con una lista di richieste irrinunciabili con accanto la data di scadenza.

Pare un diktat, ma in effetti si tratta di una grida anch’essa manzoniana. C’è infatti di tutto su quel foglio: dai ministeri alle tasse, dalla sicurezza agli sgravi fiscali per le piccole imprese. Non piacerà ai lumbard, ma questo in meridionalese si dice fare ammuina. Ivi compresa una disperata uscita di sicurezza: che il chiasso della sua polemica faccia saltare i nervi ai compagni di viaggio e li convinca a rompere loro, tenendosi tra le mani il proverbiale cerino. Perché l’intelligenza politica di Bossi, pur rotta ai tatticismi, un obiettivo ha sempre posto in cima ai propri pensieri: che non è la secessione e tantomeno il federalismo, ma il fatto che la Lega viva e continui ad esistere. E’ questo – ne sono convinto da tempo – il vero nord di Umberto Bossi. Ad un tempo croce e delizia, forza e debolezza: perché un partito è pur sempre uno strumento al servizio di una idea che lo supera.

Qui stiamo. Per questo le elezioni si presentano come la sortita obbligata. Un’alleanza con la Lega non è all’ordine del giorno non tanto perché la Lega è razzista, come recita Nichi Vendola, ma perché il disegno fin qui perseguito impedisce a un movimento tanto naîf alla base quanto capace di giravolte e conversioni ad “U” nei vertici, altre scelte a portata di mano.

Finisce che i fatti hanno la testa dura: puoi manipolare e fare annunci in quantità industriali, ma viene il momento in cui la realtà ha un linguaggio più forte della propaganda.

Il flauto di Pontida ha suonato ancora e la vecchia volpe ha saputo presentare come una sortita in avanti l’unico sentiero che gli era possibile percorrere. Ma – una volta tanto aveva perfino ragione Bettino Craxi – prima o poi anche le vecchie volpi finiscono impagliate.

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