Naufragio di Cutro: occasione per una nuova politica sui migranti

La navigazione, sin qui senza eccessivi scossoni, del primo governo di destra della storia repubblicana si è drammaticamente infranta – è il caso purtroppo di dirlo – contro le secche di Cutro, in Calabria, assieme ai 70 morti nel naufragio del battello proveniente dalla Turchia.

Partito da Smirne sulla costa occidentale turca, dopo aver doppiato il Peloponneso, il natante si era diretto verso l’Italia approssimandosi alle coste calabresi. Nella serata di sabato 25 febbraio, un aereo dell’agenzia europea Frontex, incaricata di proteggere i confini degli Stati membri dell’Ue, aveva avvistato l’imbarcazione segnalandone la presenza alle autorità italiane. I compiti di Frontex si esauriscono in un primo monitoraggio, lasciando che ad attivarsi sia poi il Paese coinvolto.

Ricevuta la segnalazione, l’Italia ha fatto uscire due navi in perlustrazione: una della Guardia di Finanza crotonese e una seconda dell’unità militare di Taranto. A causa delle cattive condizioni del mare, non è stato però possibile individuare il battello con i migranti e le ricerche sono state sospese. Qualche ora dopo, attorno alle cinque del mattino, è avvenuto il naufragio nei pressi di Steccato di Cutro, con gli scafisti che intanto avevano già gettato in acqua molte persone. Appena conosciute le dimensioni dell’accaduto le forze dell’ordine hanno iniziato le operazioni di salvataggio e di recupero delle vittime.

La procura di Crotone intende accertare come mai non si sia riusciti a raggiungere la nave e se con mezzi più adeguati, come quelli in dotazione alla Guardia costiera, sarebbe stato possibile, nonostante il maltempo, proseguire le ricerche e portare in salvo le persone. Il ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, ha peraltro sottolineato come dalla barca dei migranti non fosse pervenuta alcuna richiesta di aiuto.

Sarà ovviamente compito della magistratura accertare eventuali responsabilità ma si ha l’impressione che la situazione sia stata affrontata con qualche leggerezza di troppo. Qualche meccanismo andrà rivisto. E qui ad essere chiamato in causa non è solo il titolare del Viminale ma anche il suo collega dei Trasporti, Matteo Salvini, da cui dipende la Guardia costiera. Pare sussistere, e di questo si dovrà far luce in Parlamento, perché è più faccenda politica che giudiziaria, una logica volta a trattare il problema dei migranti – quanto mai complesso per qualunque maggioranza e in qualsiasi modo lo si rigiri – unicamente sotto il profilo della sicurezza e dell’ordine pubblico, considerando residuali i salvataggi in mare.

Emblematico in tal senso il decreto che impone alle navi delle Ong, impegnate nei soccorsi, di raggiungere porti come Ancona o La Spezia, lontanissimi dalle usuali zone di intervento nel canale di Sicilia e costringendo i naufraghi a subire ulteriori inutili sofferenze.

La linea dell’attuale Governo pare quella di intervenire solo quando vi è un’emergenza davvero conclamata. Soltanto in quel caso si va in mare, incontro a chi è in pericolo. Ma se questa situazione di emergenza non traspare, allora si aspettano gli eventi. Un attendismo però non privo di rischi. E infatti quando, come a Crotone, ci si mette di mezzo pure la sfortuna e il battello invece di insabbiarsi sui lunghi tratti di spiaggia calabrese sbatte contro una secca, succede il disastro.

Tutto questo dovrebbe far comprendere alla premier che è giunto il momento di cambiare politica. Più che andare a Cutro per un Consiglio dei ministri straordinario, la Meloni vada in Parlamento, e magari anche in televisione, assumendosi la responsabilità di una linea tanto sconsiderata e dicendosi pronta ad affrontare diversamente la questione migranti: sia con l’Europa, smettendo di strizzar l’occhio a Viktor Orban e ai suoi alleati avversi a qualsiasi intesa sovranazionale, sia con le Ong, cessando di criminalizzare chi si prodiga per salvare le persone in mare.

Tocca a lei, in quanto premier, mettere la faccia. Non certo ai ministri. In fondo sarebbe soltanto un semplice anticipo di quel presidenzialismo cui è tanto affezionata. Nell’aprile 1961, dopo il fallito sbarco anticastrista alla Baia dei Porci – un piano della precedente amministrazione repubblicana che aveva trovato pronto entrando in gennaio alla Casa Bianca – John F. Kennedy si assunse tutta la responsabilità del disastro. In quel momento gli americani capirono di aver eletto un vero statista. La nostra premier farebbe bene a seguire quelle orme: sicuro viatico di un’autentica leadership.

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