Quando la provincia è timone di intelligenza artistica

Un nuovo allestimento de “Il trovatore” di Verdi al Teatro Municipale di Piacenza

di Alessandro Mormile

Non è una novità, o meglio, è una conferma, e il pubblico ben lo sa prima ancora di chi scrive, in modo che le lodi non sembrino piaggeria. Infatti, da quando Cristina Ferrari è alla guida artistica del Teatro Municipale di Piacenza, le stagioni liriche sono un crescendo di varietà e qualità di proposte. Possono competere con istituzioni ben più ricche ed anche risultare più persuasive qualora paragonate a quelle di Festival blasonati ma in continuo e preoccupante degrado artistico, a partire dal vicino Festival Verdi di Parma.

A Piacenza, invece, Verdi lo si esegue, pur con tutte le difficoltà del caso, offrendo sorprese degne di nota. Il trovatore, infatti, accolto alla prima del 3 marzo con grandi applausi da un pubblico numeroso e partecipe, ha premiato uno spettacolo nuovo, sobrio e stilizzato, eppure efficace, senza darlo in pasto a registi che spesso non fanno altro che svuotare le casse dei teatri rovinando l’opera e sfamando il proprio ego.

Lo firma, per regia e costumi, Stefano Monti, che si avvale delle scenografie minimali firmate dallo stesso Monti e da Allegra Bernacchioni con il Teatro Gioco Vita al quale sono affidate le ombre che, unitamente alle luci di Fiammetta Baldisseri, danno senso di notturno e arcano mistero ad un impianto fisso, formato da pareti color ferro e rosso pompeiano, immerse nella penombra di sinistre luci notturne, riflesso delle ossessive ombre oscure del vissuto dei personaggi. Le pareti scorrono orizzontalmente delimitando ambienti formati da torri sceniche senza l’utilizzo di nessuno corredo scenico. Sulla scena c’è infatti davvero poco e niente, ma la narrazione è chiara, comprensibile e scorrevole. Insomma uno spettacolo intelligente e funzionale.

Sul piano musicale, alla testa dell’ottima Orchestra Filarmonica Italiana e dell’altrettanto efficace Coro del Teatro Comunale di Piacenza istruito da Corrado Casati, si impone la bacchetta di Matteo Beltrami, direttore che diventa di anno in anno più bravo ed il cui prestigio internazionale è suffragato dalle sue presenze in importanti teatri tedeschi. Da subito convince perché si muove nel segno di una tradizione esecutiva all’“italiana”, ben consapevole del taglio che un’opera come questa richiede. Beltrami, che per di più apre tutti i tagli e offre una edizione dell’opera pressoché integrale, con tutti i da capo delle cabalette, sceglie una lettura dai tempi serrati e fiammeggianti. Non per questo cade nel trabocchetto di coprire le voci, anzi le segue e le valorizza al meglio, respirando con loro, donando accompagnamenti che ai bagliori ritmici, ora sinistri ora carichi di ansiosa inquietudine, affianca slarghi lirici avvolti di luce lunare. Una lettura che da subito appare tanto ricca di particolari da permettere, a chi sa approfittarne – e parlo qui dei cantanti – di operare uno scavo espressivo della parola che pare un trattato di drammaturgia verdiana, di immediata presa teatrale.  

Lo fa Anna Maria Chiuri, Azucena di levatura artistica superiore, che cesella ogni sillaba, inondando la melodia di colori e sfumature ben motivati. A colpire è soprattutto il magistero con cui costruisce la psicologia del personaggio, donandole quel velo di mistero ed insieme di umana partecipazione emotiva che conquistano. Ed ecco la ballata “Stride la vampa” quasi sussurrata, come si conviene ad un racconto che evoca fatti drammatici senza che essi vengano esasperati dall’enfasi, ma percorsi da un brivido che rasenta il delirio della psiche. Per non parlare di mille altri particolari, spesso trascurati, che la sua lettura regala e ben evidenzia, uno fra tutti quando cesella la canzone dell’ultimo atto “Ai nostri monti ritorneremo”, intonandola tutta a mezza voce. La profondità della sua lettura, in funzione appunto del dettato espressivo verdiano, è così evidente che il resto del cast non riesce a pareggiare tale sapienza, anche se non si può certo negare che l’affidabilissimo Angelo Villari possieda voce di tenore ben proiettata, sonora e senza esitazioni nella celebre “pira”, eseguita con sicurezza, slancio e tutte le puntature acute di tradizione. Certo l’“Ah! sì, ben mio” latita di sfumature, ma la tenuta complessiva è davvero ottima e solida.

Il cast scende di livello, pur mantenendosi sull’orbita della buona resa, dinanzi alla pur interessante Leonora di Chiara Isotton, dotata di bella voce anche se ancora non del tutto libera di trovare un equilibrio d’emissione ben definito, con suoni un po’ rigidi in acuto. L’aria di ingresso sembra chiedere di essere messa ancora del tutto a fuoco, così come al “D’amor sull’ali rosee” manca l’abbandono lirico che ci si aspetterebbe da una voce come la sua.

Al Conte di Luna di Ernesto Petti non basta riconoscere bella presenza scenica se poi, all’ascolto, la voce appare spinta nei centri al punto di velarsi di fatica e di opacizzarsi in acuto. Le sporadiche buone intenzioni messe in essere nella celebre aria “Il balen del suo sorriso” non bastano a fugare i dubbi che la vocalità verdiana sia per lui la via più giusta da seguire, soprattutto quando i mezzi, per quanto non trascurabili, appaiono tecnicamente perfettibili.

Un po’ irruvidito ma efficace il Ferrando di Giovanni Battista Parodi e, fra i ruoli di contorno, si mette in luce l’interessantissima voce della brava Ilaria Alida Quilico (Ines). Completano il cast Andrea Galli (Ruiz), Domenico Apollonio (Un vecchio zingaro) e Lorenzo Sivelli (Un messo).

Del successo si è detto, ulteriore suggello di una stagione che, limitandoci a Verdi (senza tuttavia dimenticare la presenza in cartellone di Tamerlano di Vivaldi, cui è seguito Pelléas et Mélisande di Debussy e, il prossimo ottobre, Fedora di Giordano), dopo un Rigoletto inaugurale ha in serbo ancora un titolo verdiano per il prossimo autunno, Don Carlo, con un cast da gran teatro. Davvero un bel cartellone.

Foto Gianni Cravedi | Allegra Bernacchioni
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