Tommaso Baris -Andreotti, una biografia politica

Lo storico Tommaso Baris nel libro “Andreotti, una biografia politica” (il Mulino), ci presenta la prima parte della lunga carriera pubblica dell’uomo politico che, nell’immaginario collettivo, più di qualsiasi altro ha rappresentato la quintessenza del potere. Il volume si occupa del periodo della vita di Giulio Andreotti che va dalla nascita, avvenuta nel 1919 a Roma, al 1969, anno in cui divenne capogruppo Dc alla Camera.

L’intenzione dell’autore, manifestata anche nella prefazione del libro, è di proseguire quest’opera biografica con un secondo tomo per il periodo successivo dagli anni Settanta sino alla morte, avvenuta a 94 anni nel maggio 2013. Decenni nei quali il “divo Giulio”, come un po’ da tutti venne soprannominato, ricoprì per ben sette volte – un record – la carica di presidente del Consiglio.

Ma torniamo a questo primo volume, che scava tra le carte della Fondazione Andreotti e reperisce un’ampia messe di documenti da molteplici altre fonti archivistiche. Ne scaturisce una biografia estremamente dettagliata, impreziosita da non pochi aneddoti che aiutano ad illustrare nel migliore dei modi la vita di questo indubbio protagonista della nostra storia repubblicana.

Gli anni giovanili, ultimo di tre figli e presto orfano di padre, sono caratterizzati dagli studi classici seguiti dalla laurea in giurisprudenza conseguita nel 1941. Iscritto sul finire degli anni Trenta alla Fuci, la federazione universitaria dei cattolici, ne divenne presidente qualche anno dopo sostituendo Aldo Moro, richiamato alle armi. Nonostante la comune militanza i due non sembrano esser fatti per intendersi. Sarà così per tutta la vita: rapporti cordiali ma anche un reciproco distacco. Troppo diversa l’idealità morotea, propensa a disegnare nuovi orizzonti politici, dal pragmatismo andreottiano, fisiologicamente restio a qualsiasi fuga in avanti.

Nella Fuci Andreotti inizia il suo percorso pubblico che lo porterà nella Dc, debuttando come giornalista al Popolo. Corsivista di notevole acume viene notato da Alcide De Gasperi, che lo aveva incontrato anni prima nella Biblioteca vaticana, e riceve la nomina a Sottosegretario alla presidenza del Consiglio. L’anno successivo, ad appena 27 anni, viene eletto all’Assemblea costituente nel collegio di Latina e Frosinone, che rappresenterà alla Camera fino al 1991 quando fu nominato senatore a vita. Qualche tempo comincia la trafila ministeriale che lo vedrà alle Finanze nel 1954, alla Difesa dal 1959 al 1966 ed infine all’Industria nel 1968. Un’onnipresenza governativa che pochi possono vantare e che proseguirà nei decenni successivi.

Ma chi è realmente Andreotti o, per lo meno, cosa traspare dalla sua presenza nella scena pubblica? Più di qualunque altro esponente Dc rappresenta davvero l’archetipo della centralità democristiana. Si muove con estrema abilità tra le correnti dello scudo crociato, avversando in particolare l’attivismo di Amintore Fanfani che nel 1959 contribuirà a disarcionare sia da palazzo Chigi che da piazza del Gesù. Nella Dc il doppio incarico – segreteria del partito e presidenza del Consiglio – sarà sempre mal visto, e trenta anni dopo sarà Ciriaco De Mita a farne le spese.

Etichettato come esponente della destra Dc, Andreotti sfugge a qualsiasi classificazione, mostrandosi molto aperto sulle questioni sociali dalla riforma agraria ad una più equa fiscalità. E’ profondamente anticomunista ma non per questo crede alla virtù salvifiche del mercato. Tutt’altro. Rimarrà infatti sempre avverso al liberal-capitalismo e ad un certo egoismo dei potentati economici. Del resto nella sua visione, la Dc non può che essere – seguendo l’insegnamento degasperiano – un partito di centro che guarda a sinistra, verso i ceti più deboli, nel segno della promozione delle classi subalterne. Anche per togliere acqua alla sinistra social-comunista.

Essenziale per Andreotti è soprattutto la centralità della Dc, perno indispensabile della democrazia stessa. Da questa considerazione e non da ragioni prettamente ideologiche, per lo più estranee al suo proverbiale pragmatismo, nasce l’avversione al centro-sinistra nel timore di concedere – come in effetti poi accadde – un eccessivo potere di interdizione al Partito socialista. Meglio allora, questa la sua tesi, che lo scudo crociato non si leghi obbligatoriamente ai socialisti, provando a riequilibrare la probabile svolta a sinistra con una possibile apertura a destra. Verso i monarchici, che occorre separare dal Msi, la cui natura neofascista rende impossibile qualsiasi collaborazione di governo. Come d’altronde con il Pci. Una partita insomma a tutto campo – i due forni ante litteram – pur di assicurare alla Dc un ruolo centrale nello scacchiere politico.

Decisiva poi l’attività sul territorio. E in questo – va detto con la massima chiarezza – emerge in maniera lampante l’abissale differenza tra la classe politica della Prima repubblica – democristiana, comunista o missina che fosse – chiamata a conquistare il consenso a suon di preferenze tra gli elettori, e quella attuale nominata dall’alto con le liste bloccate, in virtù della fedeltà al capo bastone di turno. Vediamo così Andreotti battere uno ad uno tutti i paesi del proprio collegio, tra la Ciociaria e l’Agro pontino. Uno stretto legame col territorio che si nutre di cerimonie istituzionali e di sagre paesane, di inaugurazioni di opere pubbliche e di progetti di sviluppo locali.

Fu proprio in un’occasione del genere che, sul finire degli anni Cinquanta, nella nuova sede Permaflex di Frosinone gli venne presentato il direttore dello stabilimento. Si chiamava Licio Gelli. Primo controverso incontro tra i tanti che caratterizzarono la sua lunga militanza politica.

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