Aida in 3D

L’opera di Verdi torna sul grande palcoscenico, dopo la versione in forma di concerto diretta da Riccardo Muti, per la ricca stagione dell’Arena di Verona.

Dopo l’Aida inaugurale in forma di concerto, magistralmente diretta da Riccardo Muti, l’Arena di Verona ha dato il via ad una stagione ricchissima di appuntamenti, aprendo le danze con la celebre accoppiata verista formata da Cavalleria rusticana e Pagliacci, seguita da Aida, Nabucco, La traviata, Turandot e da diverse serate di gala. Una boccata di ossigeno per Verona, che poco per volta sta riprendendo il suo consueto trand estivo di turisti che arrivano da ogni dove per godere della lirica en plein air in uno spazio unico al mondo.

Il Covid-19, messosi di mezzo per rovinare anche quest’anno la festa, non sta impedendo al 98° Opera Festival 2021 di fare il suo corso. Per arrivare a realizzare tutto questo sono però stati necessari impegno, strategia e grandi sforzi di immaginazione, ma Cecilia Gasdia, sovrintendente e direttore artistico della Fondazione Arena, non si è data per vinta; si è adoperata perché tutto ciò che solitamente attira in estate a Verona migliaia di spettatori non subisse quelle mortificazioni che forse ci si sarebbe aspettati in tempi di pandemia non ancora finita. La capienza nella gigantesca cavea è stata ridotta, ma non la qualità artistica degli spettacoli, che hanno visto e vedranno per tutto il mese di luglio e agosto avvicendarsi i più grandi cantanti del momento. Questo è già un segnale positivo di come l’Arena non voglia perdere la sua migliore tradizione storica.

Per riferire ancora una volta di Aida, come è ben noto titolo simbolo dell’Arena, questa volta proposta appunto in forma scenica dopo quella diretta da Muti (della quale si è già riferito su queste colonne), si deve partire dalle scelte che hanno mosso gli organizzatori nello studiare un progetto scenico che garantisse la componente più richiesta del momento: la sicurezza. La scelta comune a tutti gli allestimenti che quest’anno si vedranno in Arena, contenendo il numero delle comparse e posizionando le masse corali sulle gradinate di sinistra senza farle mai muovere, punta alla multimedialità e alla finzione scenica. Ciò che un tempo si vedeva costruito in scena a grandezza quasi naturale, oggi è immaginato attraverso una struttura fissa coperta di pannelli LED sui quali vengono proiettate immagini in 3D che offrono un quadro visivo più che esaustivo di ciò che, per le restrizioni anti Covid, non si sarebbe potuto mostrare in formato reale. Ogni spettacolo nasce in collaborazione con una grande istituzione museale italiana. Nello specifico di Aida, con il Museo Egizio di Torino, che ha selezionato una sterminata sequela di scatti fotografici capaci di ricreare la suggestione dei diversi ambienti dell’opera con estrema cura, seguendo un percorso di sapore archeologico molto raffinato nella cura delle proiezioni, garantendo anche, quando necessaria, grandiosità alle scene di massa o intimità a quelle dove l’esotismo notturno prende il sopravvento e mostra il Nilo illuminato dai raggi della luna che filtra dalle nuvole e si specchia sulla sue acque creando atmosfere cariche di suggestione. Altra costante di tutti gli spettacoli areniani di quest’anno è la mancanza dei registi, fortunatamente non a scapito della creatività e della fantasia. Tutto è affidato ai video design e alle scenografie digitali della D-WOK; i movimenti scenici, invece, all’esperienza delle maestranze areniane, veri maestri nel gestire l’azione delle masse e, in questo caso, ancor più bravi se si pensa che ogni scelta è dettata da un rigido protocollo di distanziamento fisico.

La grandeur, tipica degli spettacoli areniani, permane anche attraverso queste scelte inevitabili, ben congegnate nella forma che richiama il sistema Cinerama. Così, sotto i nostri occhi, sfilano reperti di colossi e templi egizi, papiri coperti di geroglifici, pareti dorate con colonne nere e capitelli a foglia per una scena del tempio particolarmente riuscita, grate a palmizi di vago sapore déco affacciate sulle dune del deserto per gli appartamenti di Amneris e un trionfo dinamico oltre ogni aspettativa, fino ad un finale dell’opera parimenti suggestivo. Insomma, una Aida davvero bella. Non soddisferà i “fissati” del teatro di regia ad oltranza (una reale regia infatti non c’è, sostituita da una più semplicistica gestione dei movimenti) ma, proprio per questo, dimostra come in taluni casi si possa anche fare a meno delle bizzarrie (spesso e volentieri inutili o arbitrarie) di certi registi alla continua ricerca di soddisfare il proprio ego, per la gioia di pochi critici consenzienti; bizzarrie che, per quanto molti ne siano convinti, non fanno tendenza visto che il mondo, ossia gran parte del pubblico, è spesso ben lontano dal loro pensiero e da quello dei loro sostenitori. Almeno per questa Aida, Deo gratias (per Nabucco, in scena dal 3 luglio, più di una provocazione è annunciata), lo spettacolo è assicurato: tradizionale sì, ma non per questo banale e, oltretutto, realizzato secondo tutte la norme pretese per un’andata in scena in assoluta sicurezza.

Si venga alla parte musicale, affidata alla direzione del giovane e talentuoso direttore venezuelano Diego Matheuz, bacchetta già affermata, eppure la sua concertazione, per quanto solida e equilibrata, appare priva di anima drammatica, atmosfere e colori. Tutto scorre musicalmente con sicurezza ma la zampata del grande direttore verdiano ancora non c’è, come forse l’esperienza in un repertorio che richiederebbe maggior maturità espressiva. Profondità che latita anche nell’Aida del soprano americano Angela Meade, certo l’elemento più atteso del cast, eppure deludente. La voce è bella e ricca di suono, ma quando ingrana la marcia del vibrato, spesso accentuato, anche le mezze voci, che solitamente sono la sua carta vincente, finiscono col limitarsi ad alcune belle note esibite solo nel finale dell’opera, nel duetto con Radamès. Quindi niente do acuto in pianissimo, o smorzato in “Cieli azzurri”, e una certa genericità di fraseggio che mai ci saremmo aspettati da una cantante del suo rango. All’opposto, Anna Maria Chiuri, nei panni di Amneris, ripropone l’intelligente lettura (che è poi quella sua di sempre) già ammirata con la direzione di Muti, attenta ad un fraseggio analitico, costruito parola dopo parola, accento su accento; il personaggio prende vita non solo da una voce ben controllata su tutta la gamma, ma anche dalla capacità che questa cantante ha di cogliere l’essenza del canto verdiano, fatto non solo di note ben emesse ma di sincerità espressiva umanamente sentita in tutte le sfaccettature emozionali e caratteriali, partendo sempre dal senso della parola per rendere la voce strumento di verità drammatica. Caratteristiche che mancano un po’ al Radamès del pur bravo tenore Jorge de Leòn, al quale non si può negare un rendimento professionale di sicura tenuta vocale malgrado la sporadica oscillazione di alcuni suoni, sostenuto per di più da una ottima presenza scenica. Il timbro nobile e morbido di Simone Piazzola sembra in questa occasione un po’ affaticato e stinto o, forse, non del tutto confacente alla vocalità di Amonasro. Ai bei momenti, che ci sono, si alternano troppe incertezze, soprattutto quando il canto viene a caricarsi di tensione drammatica costringendolo a velare i suoni nel duetto con Aida del terzo atto. Discrete le prove dei bassi, Rafal Siwek (Ramfis) e Simon Lim (Il Re). Completano il cast Carlo Bosi, Un messaggero che non saprei immaginare migliore e Yao Bohui, Sacerdotessa.

Una bella serata, come tante altre si attendono ancora nel corso dell’estate a Verona. Partiamo proprio da qui: dall’incanto che al tramonto colora di rosa le pietre dell’Arena e apriamoci alla speranza di un futuro migliore, anche per la musica lirica, patrimonio inestimabile della nostra cultura.

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