Israele-Anp: finalmente una tregua, ma i problemi restano irrisolti

E’ finalmente giunto il cessate del fuoco tra israeliani e palestinesi. Ci sono voluti una dozzina di morti tra i primi ed oltre duecento tra i secondi, a mostrare anche numericamente la sproporzione, in termini di letalità, tra le due parti in lotta. In ogni caso, questa ennesima esplosione di violenza evidenzia come i rapporti tra Israele ed Autorità palestinese siano sempre incandescenti.

E dire che, superata la prova del Covid, per lo Stato ebraico pareva aprirsi un periodo di serenità. A turbare gli animi hanno invece provveduto due episodi che se meglio gestiti avrebbero evitato di far scoccare la scintilla da cui è partito l’incendio. Il primo di questi episodi sono state le forti limitazioni poste agli arabi per accedere nella spianata delle Moschee. Vincoli, a detta delle autorità israeliane, motivati dagli ultimi strascichi della pandemia. A questo che già contribuiva ad infiammare gli animi, si è pure aggiunta la volontà di alcune famiglie ebraiche di rientrare in possesso delle proprie abitazioni a Gerusalemme est. Abitazioni che appartenevano loro in origine, circa settanta anni fa, e poi abbandonate con l’arrivo degli arabi e nelle quali oggi vivono delle famiglie palestinesi.

In un contesto normale e pacificato la richiesta, ancorché non immune da controversie giuridiche di non facile risoluzione, avrebbe anche potuto avere senso, trattandosi di ripristinare un diritto che si ritiene esser stato leso. Ma il contesto mediorientale normale non è, né, tanto meno, pacificato per cui diviene è davvero arrischiato rimettere in discussione qualsiasi status quo. Oltretutto, a fronte di qualche decina di ebrei ortodossi ansiosa di recuperare i propri beni, ci sono ben 700mila palestinesi che potrebbero avviare le medesime rivendicazioni a proposito delle proprietà perdute al momento della fuoriuscita dalla propria terra, coincisa con la nascita di Israele. Nel sostenere i propri diritti, si rischia di dare la stura ad infinite contestazioni: un Vaso di Pandora che è meglio non aprire.

Ed è qui che emergono, in maniera lampante, le responsabilità del governo israeliano: un esecutivo debole, segnato dalle accuse di corruzione che pendono sul Primo ministro, Benjamin Netanyahu. Un premier che cerca di ricompattare il fronte interno nel classico modo dei politici alla canna del gas, giocando cioè la vecchia carta dell’orgoglio nazionale e religioso. Un altro governo, magari di centro-sinistra, avrebbe probabilmente provato a circoscrivere le rivendicazioni ebraiche, legittime finché si vuole ma, come si è visto, potenzialmente micidiali ai fini di un’accettabile convivenza tra arabi ed ebrei non solo a Gerusalemme ma in tutta Israele.

Il fatto è che alla formula “due popoli, due Stati”, nata con gli accordi di Oslo del 1993, non crede più nessuno. Il processo di pace, anche non considerando l’escalation di violenza di questi giorni, è da tempo in un vicolo cieco. L’Autorità palestinese è attraversata da una faida interna tra i radicali di Hamas, sovrani di Gaza, e i moderati di Fatah, al governo di quel che resta della Cisgiordania. A rimetterci in questa lotta intestina è soprattutto la grande maggioranza della popolazione palestinese costretta a districarsi tra l’estremismo presente in casa e la rigidità israeliana che rende difficile la vita nei territori occupati.

Israele dal canto suo prosegue la colonizzazione della Cisgiordania illegalmente occupata dopo la guerra dei Sei giorni del 1967. La politica è dominata da una destra nazionalista alleata dell’integralismo religioso che non perde occasione per fomentare il malumore persino tra gli arabi israeliani. Basti pensare all’improvvida decisione con cui si è voluto sancire a livello costituzionale la natura etnico religiosa di Israele, su basi unicamente ebraiche, escludendo quindi a priori tutta la comunità arabo-israeliana, il 20 per cento della popolazione, che vive in Israele e non comprende per quale motivo debba venir discriminata e ritenuta un corpo estraneo nella propria patria. Non certo il modo per favorire una convivenza degna di questo nome tra arabi ed ebrei. Ma oggi chi guida Israele non sembra proprio tenerne conto.

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