Carlo Donat Cattin: al centro i lavoratori

Una politica che ha sempre avuto al centro il mondo del lavoro o per meglio dire i lavoratori, a difesa dei loro diritti e della loro dignità. Una politica in cui proprio nella tenace volontà di promuovere le classi subalterne, si riverberava un’autentica ispirazione cristiana.

Questo, in estrema sintesi, il senso della parabola culturale ed umana, prima ancora che politica, di Carlo Donat Cattin, leader dell’anima sociale della Dc. Con la sua corrente, sempre minoritaria nello scudo crociato, seppe incidere nelle scelte del partito e del governo. Con coraggio e, talvolta, con quella sincera ruvidezza che gli era propria.

E’ certo difficile comparare epoche e fasi politiche diverse, però si può ben credere che messo di fronte all’abolizione dell’art.18 sul reintegro (si badi bene in caso di licenziamento illegittimo) non avrebbe esitato a votare contro, anche a costo di mandare in crisi la propria maggioranza. Altro che la sinistra Pd che trangugiò quella misura salvo poi, quando era tardi, ricredersi di fronte allo pseudo riformismo renziano, più attento ai poteri forti che ai ceti deboli.

Il fatto è che Donat Cattin, cresciuto nella Cisl e conoscendo a menadito l’universo lavorativo in tutte le sue sfaccettature, aveva come unica bussola la tutela del lavoro in ogni suo aspetto. Lo Statuto dei lavoratori, redatto assieme ai socialisti Gino Giugni e Giacomo Brodolini (prematuramente scomparso, senza assistere al compimento dei propri sforzi), fu il simbolo di quella stagione e di quella visione della società. Inutile dire che da troppi anni ci si è mossi in senso opposto.

Ma torniamo a Donat Cattin che, va ricordato, nello schierarsi a fianco dei lavoratori rifuggeva da qualsiasi facile demagogia, Ad esempio, era scettico verso quei meccanismi di automatica indicizzazione di prezzi e salari che alimentavano l’inflazione. Così come fu strenuo fautore di una politica industriale degna di questo nome, pensando però che la competitività del sistema dovesse venir giocata su moderne infrastrutture e su una sinergia tra Stato e imprese, piuttosto che insistere sulla sola riduzione del costo del lavoro.

Nella sua visione della società grande importanza avevano i partiti e i sindacati. Strumenti diversi tra loro ma rivolti entrambi alla partecipazione dei ceti subalterni alla vita pubblica. Unico modo per competere con quei potentati economici che dispongono di ben altre risorse e che, non a caso, da sempre disprezzano sia i partiti sia i sindacati. Conseguenza di questa concezione politica era l’aperta predilezione per una legge elettorale proporzionale, la sola capace di assicurare una rappresentanza parlamentare in base alla reale consistenza elettorale. Nessuna artificiosa semplificazione del quadro politico dietro ipotesi ultramaggioritarie che, alla fine, premiano solo i più forti e i meno organizzati. Idee e suggestioni, magari discutibili, ma certo degne di riflessione anche per la politica di oggi.

C’è poi un ultimo aspetto da rimarcare. Per molti versi il più importante. Donat Cattin conduceva una vita sobria, in un normale appartamento di un quartiere popolare di Torino. In quello stava la sua credibilità di uomo schierato con i lavoratori: era la sua vita quotidiana a testimoniarlo. Ed è forse questa la vera lezione che ogni leader politico dovrebbe apprendere.

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