Spagna, un vero rebus le elezioni in Catalogna

Il voto catalano è un vero rebus. Da una parte si conferma il forte sostegno agli indipendentisti e dall’altra, formazione principale a livello regionale, risulta il Partito socialista di Catalogna (Psc). Dopo molti anni i socialisti sono i più votati con il 23 per cento dei suffragi e 33 seggi nel Parlamento. Un esito, insperato sino a qualche mese fa, al quale ha contribuito la scelta per la presidenza della Generalitat, di Salvador Illa, ministro della Sanità nel governo Sanchez che ha conseguito una notevole credibilità nella gestione della pandemia.

Nel campo secessionista la Sinistra repubblicana catalana (Erc) consegue il 21 per cento, mentre i librali di Junts per Cat si attestano al 20. Il che consente loro di raggiungere rispettivamente 33 e 32 seggi. Tra i nazionalisti viene anche premiata la Cup (Concentrazione anticapitalista) che, rispetto alle elezioni del 2017, raddoppia la propria rappresentanza ottenendo ben 9 seggi.

A sinistra si conferma En Comù Podem (versione catalana di Podemos) che mantiene gli 8 seggi conquistati nella precedente tornata elettorale. Nel centro-destra si registra l’arretramento del Partito popolare (Pp) e il crollo di Ciudadanos, formazione che perde 30 dei 36 seggi conquistati quattro anni fa, quando era stata l’indiscussa vincitrice. Trionfo infine per Vox che con 11 seggi entra per la prima volta nel Parlamento della Generalitat, pescando nel bacino elettorale del Pp e prosciugando quello di Ciudadanos, dove l’ala conservatrice si è affidata, in buona parte all’estrema destra.

Da questa tornata, caratterizzata da un’astensione prossima al 48 per cento, emerge un contesto quanto mai polarizzato tra forze secessioniste e partiti costituzionali. Poco, se non proprio nullo, lo spazio per una maggioranza in grado di aprire il dialogo, evitando un’eccessiva radicalizzazione. I numeri attuali rendono probabile un governo a trazione indipendentista con 74 seggi sui 135 totali dell’assemblea. Ben sette in più della maggioranza assoluta. Alla presidenza dovrebbe quindi accedere Pere Aragonès, candidato di Erc, la formazione sovranista più votata.

Il problema è che sia la Cup sia Junts per Cat propendono per una via unilaterale verso l’indipendenza, nella logica del referendum sull’autodeterminazione celebrato il 1° ottobre 2017, al quale è seguita una serie di condanne per i leader che lo avevano organizzato. Più conciliante invece Erc, oggi al governo con il Psoe e Podemos, che auspica l’apertura di un tavolo per risolvere in via negoziale la questione catalana e che comunque chiede l’amnistia per i leader secessionisti che continua a ritenere una sorta di prigionieri politici. Non è difficile immaginare che una simile coalizione entrerà facilmente in rotta di collisione col governo di sinistra guidato da Pedro Sanchez.

Maggioranze alternative proprio non si intravedono. Da un punto di vista meramente aritmetico Erc potrebbe sommare i propri voti a quelli socialisti e di En Comù: un’intesa che disporrebbe di 73 seggi (tre in più della maggioranza assoluta) e sarebbe pienamente compatibile con l’alleanza governativa. Una soluzione però puramente teorica in quanto, proprio alla vigilia delle elezioni, le tre formazioni indipendentiste, Erc-Junts per Cat e Cup, hanno siglato un patto per scartare qualsiasi forma di collaborazione con il Psc, considerato subalterno alla monarchia centralista e alle forze conservatrici. Un’accusa priva di fondamento ma che finisce per chiudere le porte ad un’intesa con il solo partito disponibile ad accogliere alcune esigenze di maggior autogoverno. Senza ovviamente nulla concedere, a richieste di indipendenza, contrarie, del resto, alla Costituzione.

Da parecchi anni la Catalogna è segnata da velleità secessioniste. Una situazione che sta danneggiando l’economia regionale, come di recente hanno ricordato sia l’Ugt (la Cgil spagnola) sia Confindustria, e che rischia soltanto di peggiorare. Servirebbe una svolta. Una decisa apertura da ambo le parti: opzione federalista dal lato del Governo e rinuncia alla secessione, negoziata o meno, dal fronte nazionalista. Per farlo ci vorrebbero però anche dei leader disposti a rischiare ed oggi la debolezza del quadro politico pare frenare qualsiasi ragionevole via di uscita.

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