Franco Marini: sindacalista, politico e cattolico democratico

Franco Marini, scomparso nei giorni scorsi ad 87 anni, non era soltanto un dirigente sindacale di grande levatura (che già non sarebbe poco) ma anche uno dei più importanti esponenti della sinistra sociale democristiana e, più, in generale, del cattolicesimo politico del nostro Paese.

Ai diritti dei lavoratori, questo ruvido sindacalista abruzzese – nativo di San Pio delle Camere, sull’appennino aquilano – ha realmente dedicato l’intera esistenza, fino a giungere nel 1985 alla carica di segretario generale della Cisl. Per Marini non c’erano governi amici da trattare con i guanti o esecutivi da avversare a prescindere. Occorreva invece confrontarsi su tutto e con tutti con la massima autonomia di giudizio perché una cosa è la politica, altra è il sindacato. Due sfere che certo sono prossime, ma che vanno tenute ben distinte, preservando ciascuna la propria autonomia.

Questa stessa logica la ritroviamo nel rapporto con le imprese: confronto a tutto campo, anche molto duro se necessario, ma sempre alla ricerca di una soluzione. Quasi leggendaria – e qui emergeva una tenacia di stampo contadino – la sua resistenza in certe maratone notturne con la controparte per giungere ad un accordo. Il sindacato – rispondeva a chi contestava questa vocazione al dialogo – deve saper firmare i contratti e non inseguire disegni ideologici estranei agli interessi dei lavoratori. Interessi da tutelare, se del caso, anche scendendo in piazza. Non si contano le manifestazioni che il democristiano Marini guidò contro governi democristiani. Stava qui il nocciolo dell’autonomia sindacale: un valore da preservare sempre.

Nei primi anni Novanta poi, dopo la morte di Donat Cattin, il definitivo ingresso in politica come ministro del Lavoro. Lo troviamo quindi ad animare la sinistra sociale democristiana, corrente fondata da Donat Cattin che, sebbene fosse minoritaria, riusciva per la sua notevole capacità di elaborazione politica, ad incidere sulle scelte del partito e del Governo, in maniera assai più rilevante di quanto non avrebbe dettato un mero rapporto aritmetico.

Il debutto nell’arena politica coincise, grosso modo, con la fine della Dc e la nascita del Partito popolare, quasi subito alle prese con la scissione della sua ala moderata ad opera di Rocco Buttiglione che approderà nel centro-destra. Per Marini fu naturale schierarsi nel centro-sinistra e nel 1996 diverrà segretario del partito. Sarà quindi uno degli artefici della nascita dell’Ulivo che portò Romano Prodi a palazzo Chigi e la sinistra al governo del Paese dopo quasi mezzo secolo.

Poi vi fu la confluenza del Ppi nella Margherita, con l’idea di unire il riformismo cattolico e quello laico-liberale, premessa ad un altro progetto, ancor più grande ed ambizioso: la nascita del Partito democratico. Storico incontro tra sinistra social-comunista e mondo cattolico riformista. Un’adesione meditata, per certi versi anche sofferta, ma sorretta infine dalla sensazione che fosse giunto il momento, nel centro-sinistra, di superare antiche contrapposizioni e costruire qualcosa di nuovo.

Del neonato Pd si ritrovò così ad essere uno dei padri nobili. Anche per questo, nel 2006, ascese alla presidenza del Senato dopo una competizione, tutta tra ex Dc, niente meno che con Giulio Andreotti, sponsorizzato dal centro-destra. Sette anni dopo, nel 2013, fu candidato per il Quirinale. Sarebbe stata una scelta felice: alla testa della Repubblica – fondata sul lavoro – una figura di così grande spessore proveniente proprio dal mondo del lavoro.

Di Marini resta la bella lezione di un continuo impegno a favore dei lavoratori, per la tutela dei loro diritti e per la loro promozione sociale. Bussola che orientò la vita di un uomo che quando divenne presidente del Senato, si definì, in tutta semplicità, un sindacalista.

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