1921: cento anni dalla nascita del Pci

Un paio di settimane fa, è stato ricordato il centenario della nascita del Partito comunista, avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921, alla conclusione del XVII congresso del Partito socialista. In pratica la prima di una delle innumerevoli scissioni della sinistra, male endemico che da sempre la caratterizza.

Difficile, se non impossibile, condensare in poche righe una vicenda tanto lunga e complessa come quella del Pci. Un percorso che va dal fascismo alla caduta del Muro di Berlino, passando per la Resistenza, la Costituzione, il boom economico. Se la nascita del Pci o, per meglio dire, del Partito comunista d’Italia (come inizialmente fu denominato) avvenne agli albori degli anni Venti sotto la guida di Antonio Gramsci, è soprattutto nel secondo dopoguerra che questa formazione diverrà una grande protagonista della politica nazionale, forte sia del prestigio di una classe dirigente che nel Ventennio patì carcere e confino sia del ruolo avuto nella Guerra di Liberazione contro il nazifascismo.

Abbandonando le iniziali velleità rivoluzionarie il Pci fece della difesa della Costituzione la bussola su cui orientare la propria azione. Nell’attuazione dei principi sanciti dalla Carta, Palmiro Togliatti intravide il primo gradino per giungere all’agognata meta del socialismo. Traguardo che per il Pci restò l’obiettivo di fondo non volendo, o forse non potendo, trasformarsi in una forza compiutamente socialdemocratica o laburista alla stregua di quanto accadeva alla sinistra di altre nazioni europee.

Diversamente che nel resto dell’Europa occidentale, in Italia il Partito comunista ebbe sempre un più forte consenso elettorale di quello socialista. Solo in Francia si registrò un analogo rapporto di forze che però il socialista François Mitterrand rovescerà a favore del suo partito svuotando il Pcf.

Superato dal Psi nel voto dell’Assemblea costituente, il Pci conquistò l’egemonia del della sinistra già nelle storiche elezioni del 18 aprile 1948 che segnarono il trionfo democristiano. Sotto le insegne del Fronte popolare, che univa in una lista comune Pci e Psi con l’effigie di Garibaldi, i candidati comunisti, sospinti da una più capillare organizzazione territoriale, sopravanzarono in larga parte quelli socialisti. Da lì prese forma quel divario di consensi che sarà poi sempre riconfermato nelle successive scadenze elettorali. Con il Psi vi fu sempre notevole conflittualità, ancor più accentuata dal suo ingresso nell’area di governo mentre il Pci, a causa dei legami con Mosca, pur conseguendo oltre il 30 per cento dei suffragi, rimaneva inevitabilmente relegato all’opposizione.

A dispetto dei vincoli della Guerra fredda, il Pci seppe comunque diventare un partito di massa, legato al mondo del lavoro e alle classi subalterne, ma capace anche di conquistare ampi consensi nel ceto medio. In questo si realizzò quel “partito nuovo”, non settario ma aperto alla società nel suo insieme, immaginato da Togliatti sin dal 1944. Assai fecondo fu anche il dialogo con il mondo cattolico, in particolare sui temi della pace e del lavoro. Negli anni Settanta, con la strategia del compromesso storico, imbastita da Enrico Berlinguer sotto la spinta del golpe cileno, il Pci sembrò prossimo ad andare al governo con la Dc per un nuovo corso riformatore. L’assassinio di Aldo Moro, che di quella stagione era l’insostituibile mentore, pose però fine a tutto.

Gli anni successivi, tra questione morale ed opposizione ad oltranza, videro un Pci privo di reali sbocchi politici. Poi, nel novembre 1989, pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, Achille Occhetto, divenuto segretario del partito, propose il cambio del nome ritenendo che, con il crollo del comunismo, non avesse più senso quella denominazione. Si chiudeva così – in maniera un po’ inaspettata e repentina – una storia poltiica che, con i suoi ideali, i suoi limiti e le sue contraddizioni aveva segnato la vita della sinistra italiana e del nostro Paese.

Cosa resta oggi del Pci? E’ sempre arduo fare certi confronti. L’erede più prossimo, visto che raccoglie ancora una buona fetta del vecchio elettorato comunista, può venir considerato il Partito democratico, nato grazie al decisivo apporto degli eredi della sinistra Dc. Per molti versi, può dirsi che l’incontro tra la cultura social-comunista e quella cattolico-democratica rappresenti la più grande novità di questi anni. La ricomposizione sotto un’unica bandiera dei riformismi italiani. Forse un paradosso per gli epigoni di un partito che cento anni fa nacque per fare la rivoluzione, ma tutto sommato anche un percorso politico in qualche modo imparentato sia con il “partito nuovo” che con il compromesso storico.

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