Diego come Evita

Reid, Butcher, Hoddle, Sansom, Shilton: i nomi di mezza formazione inglese ai mondiali di Messico ’86. I giocatori che Diego Maradona saltò come birilli, uno dopo l’altro, per regalare alla sua Argentina, ma in fondo a tutti gli appassionati di calcio, una rete indimenticabile. Il gol che viene – anche oggi e magari sarà così per sempre – considerato il più bello di tutti i tempi. Immenso campione, superato forse soltanto da Pelè. Ma, a ben pensarci, che senso hanno queste graduatorie? E’ come fare una classifica tra Dante e Shakespeare o tra Mozart e Bach. Stiamo parlando di due fuoriclasse, entrambi la personificazione del calcio: per la serie “datemi un pallone e vi solleverò il mondo”.

Questo era Maradona che qualche giorno fa se ne è andato – lui che di clamore ne ha fatto sin troppo – quasi alla chetichella, poche settimane dopo aver compiuto i 60 anni. Ci lascia nel pieno di quella mezza età che, il comico Marcello Marchesi, diceva fosse una bella età: non più troppo giovani ma neanche troppo vecchi. Non sappiamo bene come vivesse questa fase della sua vita, di certo sappiamo che alle sue spalle c’era un passato calcistico d’eccezione tra un Mondiale vittorioso, trascinando quasi da solo la squadra argentina al successo finale e un’impresa, quasi riuscita, quattro anni, con i bluceleste battuti in finale dai tedeschi.

E poi c’era Napoli. La città, prima ancora che la squadra di calcio. Se mai un calciatore straniero, tra i tanti che hanno calcato i nostri campi da gioco, si è totalmente identificato con la città italiana che lo ha accolto, questo è stato Maradona con Napoli. Una simbiosi perfetta. Un amore a prima vista, regalando ai napoletani anni da sogno. Mai, prima di lui, il Napoli aveva vinto uno scudetto: con lui ne vinse due (1987 e 1990): un quadriennio che portò gli azzurri a sfidare le grandi del calcio. Una gioia indescrivibile per una città, quella partenopea, troppo spesso vittima di se stessa. Una favola che avrebbe potuto continuare oltre, per qualche anno ancora, se non fossero comparse quelle ombre che, come in ogni esistenza umana, accompagnano le luci.

E quel simpatico folletto, capace di incantarci con magnifici slalom tra nugoli di avversari, faceva assai più fatica a dribblare le trappole della vita. Una vita eccessiva in tutto, come a volte capita alle persone generose e lui certamente lo era, non solo con gli amici ma con chiunque gli passasse accanto. Retaggio di un’esistenza sempre in salita, partendo dalla periferia di Buenos Aires, per ritrovarsi all’apice del mondo del calcio e, forse, non solo di quello. Uno straordinario destino che mai avrebbe potuto immaginare quando, bambino, correva dietro una palla assieme ai suoi coetanei.

Oggi l’Argentina ha salutato Diego Maradona come ieri fece con Evita Peron: lo stesso dolore, la stessa commozione, lo stesso smarrimento. Come Diego anche Evita era passata in pochi anni dai quartieri popolari alla più grande celebrità, da attricetta di second’ordine a prima donna del Paese. In fondo Diego con la sue magie che facevano impazzire i tifosi, riempendoli di orgoglio, somiglia ad Evita, icona dei descamisados, i senza camicia, quel proletariato che la giovane moglie di Peron voleva far ascendere socialmente. Come lei, morta ad appena 33 anni, anche lui lascia un vuoto enorme. Emblemi di quella voglia di riscatto, sociale ed umano, che è una delle principali e naturali molle della nostra vita. Anche se una volta raggiunta, la fama finisce per dare le vertigini. A chiunque.

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