Pace fiscale: non immeritato condono ma reinvestimento sulla fiducia del cittadino

Affinché una proposta di “pace fiscale” non sia considerata come il pullman su cui far salire chi non ha pagato il biglietto, per un viaggio-premio immeritato, dovrebbero essere stabiliti alcuni criteri di giudizio, o meglio di accesso. Lo scopo è quello di distinguere fra gli evasori intenzionali e quelli forzati: difficile individuare il discrimine, ma la somma di criteri potrebbe dare la fotografia giusta.

Anzitutto si tratterebbe di ripercorrere la storia fiscale del soggetto: prima di risultare un “cattivo pagatore” dello Stato, ha avuto una fase di “normalità”, ossia di regolare contribuzione alle casse pubbliche? Dalle vicende che lo stesso contribuente potrebbe ricostruire in una “memoria fedele” potranno emergere fatti decisivi per passare da una situazione all’altra: un mancato incasso consistente, o un pesante ritardo nell’afflusso di liquidità (magari anche per inerzia di un Ente Pubblico pagatore), una causa legale perduta, una malattia debilitante (ma non abbastanza per smettere), un trattamento di fine rapporto da erogare in maniera imprevista… Episodi anche lontani possono creare a cascata effetti sull’oggi, la mancanza d’ossigeno in certi passaggi crea danni che si moltiplicano nell’organismo.

Ci sono poi elementi oggettivi generali: settori che hanno subito un crollo o almeno una riduzione consistente per via della trasformazione del mercato, per un cambio di legislazione, per l’introduzione di nuove qualifiche abilitanti a certe professioni, per un cambio di politiche nazionali o locali, per l’avvento di una concorrenza insostenibile. Non tutti gli imprenditori hanno la lucidità di smettere a tempo debito. Come succede a molti, ogni giorno si scommette di nuovo. Tutta la letteratura che si riversa sulle strategie aziendali e sulla personalità dell’imprenditore insiste nel ripetere “non mollare”, “resisti”, “ritenta”: una scelta obbligata, tra l’altro, per chi magari ha raggiunto un’età non più spendibile sul mercato del lavoro.

Un criterio è anche quello di costruire un disegno dinamico del patrimonio del soggetto: un signore che era stato dipendente di una grande impresa aveva potuto acquistare con il suo stipendio più di un appartamento; scegliendo di mettersi in proprio, a distanza di un paio di decenni si è trovato a doverli vendere per sanare il bilancio in rosso costante della sua azienda. Misurare se nel corso del tempo il soggetto abbia accresciuto (anche attraverso dei prestanome) o al contrario dissolto il suo patrimonio è un riscontro inequivocabile nei dati della veridicità o meno della definizione di “evasore intenzionale” o di “irriducibile ottimista”.

A fianco a questo elemento, si può misurare è quello dell’indebitamento con le Banche. Nessun piccolo imprenditore ha piacere di ricorrere al finanziamento oneroso: attinge alle risorse proprie, dei familiari, talvolta degli amici. Se è costretto a sottoscrivere mutui e fidi non è per aver trovato un business straordinario, ma molto più ordinariamente per salvaguardare il suo buon nome e quello dell’impresa, per non mancare ai debiti con i fornitori, per acquisti improcrastinabili. Per pagare le tasse. Quando poi emergono i prestiti avuti da strozzini è troppo tardi, per il soggetto imprenditore e per lo Stato: il contribuente sarà sempre più risucchiato dal gorgo dei debiti, il contribuente sarà sempre più latitante. Fino, in certi casi, a scegliere la fuga in un altro Paese o, nei casi più drammatici, il suicidio. Il ragionamento che porta alcune Banche ad avere dei canali di finanziamento per il superamento della dipendenza dagli usurai ha la sua logica di cura della disfunzione finanziaria per riportare un elemento del sistema economico alla sua piena funzionalità, capace di generare di nuovo del reddito buono.

Ci sono altri elementi che potrebbero entrare in un “paniere” per la valutazione della onestà o meno del contribuente che si trova in arretrato o in blocco con il versamento delle tasse. Appartengono forse meno alla valutazione di tipo classico, ma l’attenzione ad una gestione dell’impresa che risponda più alla logica del bene comune che a quella del profitto individuale si può leggere nella filigrana della “storia” dell’imprenditore e della sua impresa.

È quello che, facendo ricorso non strumentale al grande movimento in corso di critica e proposta sui fondamenti dell’economia, potremmo chiamare “valutazione etica” del debitore pubblico.

Anzitutto si dovrebbe considerare se l’imprenditore nel corso degli anni abbia investito sul personale, promuovendo assunzioni, garantendole fino a che abbia potuto; se i collaboratori anche occasionali abbiano avuto cioè il giusto peso nel bilancio della sua azienda. È una valutazione che si può fare sulla base dei dati ma, non meno importanti, delle testimonianze dei dipendenti e dei collaboratori: un’analisi “qualitativa” che potrebbe dare una percezione veritiera sullo spirito proclamato dalla costituzione (all’articolo 41) che l’impresa sia indirizzata e coordinata a fini sociali. Chi ha cercato di rendere la sua attività una fonte di reddito per qualche decina di persone lungo il tempo ha sicuramente pagato la sua quota di tasse in maniera virtuale, con un effetto misurabile sul benessere di più famiglie.

Sulla stessa scia etica, bisognerebbe considerare se il soggetto da “condonare” abbia mai dedicato del tempo a cause sociali, al volontariato, alla partecipazione. Non che questo giustifichi la sottrazione di risorse derivante dalla tassazione, ma certamente la valutazione se ammettere o meno una persona debitrice verso la collettività dovrebbe tener conto della condizione soggettiva di chi si è speso o meno per il bene comune.

Difficile inserire in termini legislativi e regolamentari una valutazione della persona debitrice verso lo Stato sulla base di elementi così poco ancorati ai “numeri”. Eppure se il cittadino è una persona, il modo in cui va considerato è quello della completezza della sua relazione con la società. Forse la riflessione sull’etica in economia dovrebbe incominciare a considerare più in dettaglio questo aspetto. Anche perché una tale impostazione restituirebbe al rapporto giuridico ed economico dentro al “sistema” la sua dimensione umana. Nessuno ha un guadagno dall’accanimento verso un insolvente: semmai l’interesse è quello di riabilitarlo a un rapporto positivo con la rete. Quando nel 2000 si discusse approfonditamente sulla riduzione del debito dei Paesi poveri, la logica che emergeva era che il fatto di dare fiducia e libertà di azione alle economie più deboli le avrebbe rese di nuovo capaci di interloquire con la globalità, di allentare il meccanismo perverso dei mancati investimenti in salute, istruzione, diritti. Fatte le debite proporzioni, ogni singolo “evasore forzato” deve essere rimesso in carreggiata.

Con un patto che comprenda qualche elemento qualificante. Ad esempio trasformare il debito verso lo Stato nell’impegno a spendere una somma equivalente per creare occupazione: lo Stato non ci perderebbe ma avrebbe solo da attendere la restituzione a distanza di uno o più anni, attraverso la tassazione dei redditi e dell’utile aziendale; l’imprenditore pagherebbe “a rate” il suo debito, vedendosi peraltro restituire il medesimo valore in termini di lavoro. Ci sarebbe almeno un occupato in più per ogni “evasore” beneficato. Alleggerito dal peso opprimente del sentirsi sempre in debito verso l’entità collettiva, il soggetto tornerebbe a vedere con fiducia il futuro, condizione indispensabile per rimanere un buon imprenditore. E gli errori e le manchevolezze del passato certamente non si ripeterebbero.

Pensare a queste cose dà una sensazione di possibile rappacificazione con gli altri e con se stessi, senza che sia sottratto alcunché all’interesse collettivo. Non sarebbe un condono (facciamo finta che non sia successo niente) né uno sconto (pochi, maledetti e subito), ma un reinvestimento sulla fiducia. L’imprenditore serio che si affanna a star dietro alle scadenza fiscali non è uno che non voglia pagare il prezzo dello stare in società. Scommetterei che la gran maggioranza sottoscrive l’idea espressa da Tommaso Padoa-Schioppa nel 2007 che le tasse sono una cosa bellissima: è bello essere in grado di pagarle, la soddisfazione di aver corrisposto quanto calcolato ti fa sentire in pace con te stesso e con gli altri.

La parola “pagare” ha la stessa radice del termine “pace”: per questo non è una bestemmia chiedere la “pace fiscale” perché significa mettere un consistente numero di contribuenti in condizioni di onorare un pagamento, in forme che l’intelligenza e il realismo devono saper trovare. Non è proprio il caso che questa prospettiva sia estromessa dal pensiero progressista e coerente con la giustizia.

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