Pietro Cavallo – Italiani in guerra

Lo storico Pietro Cavallo in “Italiani in guerra, sentimenti ed immagini dal 1940-1943” (Il Mulino), ci presenta una minuziosa ricognizione su come l’Italia visse quel triennio da cui risalta la percezione che avevamo dei nostri nemici o il rapporto, non immune da tensioni, con il nostro alleato tedesco. Ne scaturisce un interessante spaccato della vita quotidiana del Paese.

Molteplici gli aspetti indagati. Ad esempio il cinema, importante veicolo di propaganda per raccontare il conflitto, mitizzando alcune imprese militari (come l’assedio dell’oasi libica di Giarabub) o semplicemente narrando vicende di costume, con pellicole che esaltavano il sacrificio, la tenacia e l’abnegazione. Doti che il fascismo magnificava come indispensabili per giungere all’”immancabile vittoria”. Utili per capire lo stato d’animo della popolazione, erano i rapporti degli informatori forniti a prefetture e comandi dei carabinieri che, in qualche caso, potevano anche giungere sul tavolo del Duce. Diviene significativo scoprire come le note registrate da chi era più a contatto con la realtà quotidiana venissero spesso sfumate ed edulcorate mano a mano che si saliva nella scala gerarchica. Più ci si avvicinava al vertice, maggiore era la tentazione, per ragioni politiche o di semplice opportunità, di sottacere gli aspetti più scomodi e fastidiosi.

L’Italia del 1940 era comunque molto diversa da quella del ’15-18. In venti anni eravamo passati da nazione agricola semianalfabeta a Paese sulla via di una prima industrializzazione, con una scolarità ben più elevata di quella della generazione precedente. Tutto questo accresceva non solo le aspettative di benessere ma, soprattutto, al di là della morsa della censura, aumentava l’attenzione verso gli avvenimenti politici. C’era, insomma, maggior consapevolezza delle cose. Qualcosa che si percepisce dalle lettere che dal fronte venivano inviate a genitori, mogli e fidanzate: assai più articolate nei contenuti, rispetto al tenore quasi elementare dei fanti della Grande guerra.

In verità, per molti mesi, dal settembre del 1939 alla primavera del 1940, gli italiani sperarono di non essere coinvolti nella nuova guerra europea, rimanendo in attesa degli eventi. Larga parte del Paese mal digeriva l’alleanza con i tedeschi: ancora fresco era il ricordo di averli avuti nemici sul Piave e, per di più, trapelava una malcelata diffidenza verso il nazismo. Ad un certo momento però, dinanzi alla travolgente e, per certi versi, inaspettata avanzata in Francia, le cose cambiarono ed anche i più scettici si convinsero dell’ormai prossima vittoria tedesca. Iniziò allora a farsi strada la voglia di entrare in guerra per ricevere una parte di bottino. Qualcuno non mancava di segnalare che rimanendo fuori da un conflitto vinto dalla Germania rischiavamo persino di esporci a future ritorsioni.

Il nostro problema è che non vi era alcuna chiarezza sugli obiettivi politici e militari da raggiungere. Nel 1915, con il Trentino e la Venezia Giulia, che aspiravano ad unirsi all’Italia, tutto era stato più semplice: erano mete alla nostra portata, comprensibili per chiunque. Niente di tutto ciò nel ’40. Certo, si parlava di Nizza, della Tunisia, addirittura di Suez ma sempre in maniera confusa, quasi dovessero piovere dal cielo, sulla scia del fulmineo successo del nostro potente alleato. In ogni caso, tutti pensavano che la guerra sarebbe stata breve: poche settimane soltanto, per concludersi in autunno.

I primi rovesci fecero comprendere che le cose erano assai più complicate. Allora la nostra partecipazione non venne più spiegata in termini di nuove conquiste territoriali, ma di una contrapposizione tra popoli poveri e ricchi, con la Germania e l’Italia, proletaria e fascista, collocate tra i primi e l’Inghilterra, con il suo impero coloniale, tra i secondi. Il fascismo evocava anche la lotta delle forze spirituali, fondate sulla famiglia e il lavoro, contro i due materialismi: quello sovietico, dell’ideologia, e quello americano, del denaro, ritenuto persin peggiore del primo.

Per un po’ questa propaganda ebbe buon gioco. Poi, alla fine del ’42, tra El Alamein e Stalingrado, tutto crollò e, con la partita definitivamente perduta, tutti i nodi vennero al pettine. Il 25 luglio e la caduta del fascismo erano ormai alle porte e di lì a poco, con l’armistizio, sarebbero iniziati i più tragici diciotto mesi della nostra comunità nazionale.

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