Voto anticipato in USA

Circa 60 milioni di americani hanno già espresso il loro voto per le presidenziali, in anticipo rispetto all’election day previsto il prossimo 3 novembre. È una cifra record, di molto superiore al dato registrato alle precedenti elezioni del 2016, che già avevano visto un notevole aumento di voti anticipati rispetto a tutte le precedenti tornate elettorali.

Questa crescita è dovuta in gran parte ai timori legati alla diffusione della pandemia Covid-19 negli Usa, che restano di gran lunga il Paese più colpito sia in termini di contagi, sia di decessi. La possibilità di votare in anticipo, magari anche via posta o telematicamente, evitando le code e gli assembramenti del giorno delle elezioni, ha convinto molti americani a esprimere fin da ora la propria preferenza riguardo ai candidati alla presidenza. Il che significa anche, chiaramente, che avevano già deciso per chi votare. Senza bisogno di assistere ai dibattiti televisivi fra i due candidati o fra i loro vice. Senza ascoltare i vari interventi di personalità a favore dell’uno o dell’altro, senza attendere la fine della campagna elettorale.

Perché i quattro anni di presidenza Trump sono già di per sé sufficientemente dirimenti per prendere una decisione, più di qualsiasi slogan o comizio. La sua è stata una delle presidenze più divisive della Storia americana, forse seconda soltanto a quella di Lincoln, che portò addirittura alla guerra fra gli Unionisti del Nord e i Confederati del Sud, divisi dalla decisione di abolire la schiavitù, ma anche da altre ragioni economiche e sociali.

Ma oggi è tutta un’altra storia. Qui non ci sono grandi ideali o posizioni politiche sedimentate a creare uno spartiacque. Semplicemente, Donald Trump ha fatto capire con chiarezza che non è il Presidente di tutti gli americani, ma solo di una parte. Quella dei bianchi, potremmo dire in linea generale. Ma più esattamente, quella dei suprematisti bianchi, che non si limitano a rivendicare diritti per sé, ma vogliono anche negarli agli altri.

Questa tendenza è rimasta percepibile, ma latente, per quasi tutta la durata della sua presidenza, ma è diventata palese dopo il cinico omicidio di George Floyd, ucciso il 25 maggio di quest’anno da un agente di polizia durante un arresto che definire brutale è riduttivo. Le immagini del poliziotto bianco che, in modo del tutto immotivato, preme il ginocchio sull’uomo di colore steso a terra inerme fino a soffocarlo hanno fatto il giro degli Stati Uniti e non solo, provocando una ondata di proteste guidata dallo slogan “black lives matter”, le vite dei neri contano.

Tutto sta a vedere se queste vite, oltre a contare nelle manifestazioni oceaniche che per settimane hanno incendiato varie città del Paese, conteranno anche nelle urne. Perché è un dato di fatto che le minoranze hanno da sempre una percentuale di affluenza al voto più bassa, dato ribaltato solo in occasione della candidatura di Obama, primo afroamericano a competere nella corsa alla Casa Bianca, vincendola anche grazie al voto compatto in suo favore delle etnie minoritarie.

Un voto che Joe Biden, il candidato dei Democrtici che sfida Trump, ha cercato di intercettare scegliendo come vice Kamala Harris, senatrice della California dalla pelle ambrata, con padre giamaicano e madre di origini indiane (inteso come proveniente dall’India, non come pellerossa, per non creare fraintendimenti).

Ma oltre alla questione razziale, oltre alle differenti visioni sull’economia, sul welfare e sulla politica estera – settore quest’ultimo nel quale Trump si è mosso con la delicatezza di un carro armato in una zona pedonale – c’è una questione su tutte che crea un solco fra i due candidati, anzi potremmo definirla “la” questione principale, negli USA come nel resto del mondo.

Parliamo, ovviamente, dell’approccio differente, anzi opposto, sull’epidemia da Covid-19. Il presidente in carica ha sempre minimizzato la questione, bollando come allarmisti coloro che cercavano di frenare la diffusione del contagio, preoccupato più di evitare le ricadute economiche della crisi sanitaria che di salvaguardare la salute dei propri cittadini. Al contrario, Joe Biden ha sempre guardato a Covid-19 come a una minaccia per la nazione, esortando tutti alla massima attenzione e prudenza, indossando la mascherina in ogni sua apparizione in pubblico e criticando il suo avversario per come (non) stava gestendo l’emergenza pandemica.

I fatti hanno clamorosamente palesato l’inadeguatezza dell’approccio di Trump, visto che lui stesso, la moglie e alcuni loro stretti collaboratori sono stati contagiati dal virus. Certo, Trump ne è uscito piuttosto in fretta, grazie a una diagnosi precoce e a cure senz’altro di prim’ordine. Ma l’episodio lo ha costretto a uno stop forzato in piena campagna elettorale, facendo anche saltare il secondo dei tre faccia-a-faccia televisivi previsti, a tutto vantaggio di Biden, che appare avanti nei sondaggi.

Anche per quanto riguarda il voto anticipato, bisogna rilevare che, fra quanti si sono già espressi, i più si sono registrati come elettori del partito democratico, contrariamente a quanto era successo quattro anni fa. Ma i repubblicani contano soprattutto sul voto in presenza, il 3 novembre, senza dimenticare quella “maggioranza silenziosa” che, a detta di Trump, lo sostiene senza palesare la propria preferenza. Dunque, il confronto fra i due candidati è ancora apertissimo e l’esito finale tutt’altro che scontato.

Del resto, anche quattro anni fa Trump polverizzò tutti i pronostici che davano Hillary Clinton come sicura trionfatrice delle elezioni, ribaltando ogni previsione e negandole l’opportunità storica di essere la prima donna a diventare presidente degli Stati Uniti. Ora il testimone passa a Kamala Harris, che potrebbe entrare alla Casa Bianca come vice di Biden in un momento davvero cruciale per gli Stati Uniti e per il mondo intero, dove su tutto e tutti pesa la seconda ondata di Covid-19.

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